« Perché lui? » si trovò a domandare. « Perché proprio lui, per l'amor del cielo? Non potevi cercarti qualcosa di meglio? »

Flynn non disse niente per difendersi.

« Credo sia meglio se te ne vai », disse Charmaine, cercando di rimettere nella scatola la pelliccia con movimenti goffi.

« È solo uno stronzo », continuò Marty. « Non vedi che è solo uno stronzo? »

« Lui era qui », gli rispose amaramente. « Tu no. »

« Cristo, è un fottuto ruffiano. »

« Sì », ammise lei, lasciando cadere la scatola e alzandosi in piedi con occhi furenti, pronta a sputargli in faccia tutta la verità. « Sì, è proprio così. Perché credi che stia con lui? »

« No, Charmaine... »

« Tempi duri, Marty. Non si può vivere di sola aria e di lettere d'amore. »

Faceva la puttana per lui; quel fottuto le faceva fare la puttana. Flynn, sempre sulle scale, stava diventando sempre più pallido. « Coraggio, Marty », disse. « Non l'ho mai costretta a fare niente che non le piacesse fare. »

Marty si mosse in direzione delle scale.

« Non è vero? » Flynn si stava rivolgendo a Charmaine. « Diglielo, per l'amor del cielo! Ti ho mai costretta a fare qualcosa che non ti andava? »

« Non farlo », urlò Charmaine, ma ormai Marty aveva già iniziato a salire le scale. Flynn rimase al suo posto per qualche istante, poi corse in cima. « Dai, piantala... », disse con le mani alzate, nel tentativo di fermarlo.

« Hai fatto diventare mia moglie una puttana? »

« Io? »

« Hai fatto diventare mia moglie una puttana? »

Flynn si voltò e cercò di scappare. Marty fece le scale di corsa, inseguendolo.

« Bastardo! »

Il piano di fuga funzionò: Flynn riuscì a chiudersi a chiave nella stanza. Marty non poté fare altro che picchiare sulla porta, cercando inutilmente di farsi aprire da Flynn. Ma bastò un attimo per far placare la sua rabbia. Quando Charmaine arrivò in cima alle scale, Marty aveva già smesso di picchiare e se ne stava appoggiato alla parete, con gli occhi lucidi. Lei non disse nulla: non poteva o forse non voleva colmare il baratro che si era creato fra di loro.

« Proprio lui », fu tutto quello che Marty riuscì a dire. « Con tutta la gente che c'è. »

« È stato molto buono con me », rispose. Non aveva intenzione di discutere: ormai, Marty era uno sconosciuto. Non gli doveva più nessuna scusa.

« Ma come hai potuto farlo? »

« È colpa tua, Marty. Hai perso per tutti e due. Non ho mai potuto dire niente. » Stava tremando - lui se ne accorse - ma per la rabbia, non per il dolore. « Hai scommesso tutto quello che avevamo. Ogni singolo quattrino. E hai perso tutto, per tutti e due. »

« Non siamo morti. »

« Ho trentadue anni. Ma mi sento come se ne avessi il doppio. »

« È lui che ti fa stancare troppo. »

« Sei uno stupido », disse lei con tono amorfo; il suo freddo disprezzo sembrava essersi indebolito. « Non ti sei mai reso conto di quanto fossero difficili le cose: ti sei sempre comportato come più ti piaceva. Sei uno stupido egoista. »

Marty si morse il labbro superiore guardando quella bocca che gli sputava in faccia tutta la verità. Avrebbe voluto colpirla, ma non sarebbe servito a niente. Scuotendo la testa, le passò davanti e si precipitò giù per le scale. Lei restò in silenzio.

Passò di fianco alla scatola che conteneva la pelliccia. Avrebbero anche potuto scoparci dentro, pensò; a Flynn sarebbe piaciuto. Raccolse il sacchetto che conteneva il suo vestito e se ne andò. Tremarono i vetri delle finestre quando sbatté la porta con violenza.

« Puoi uscire, adesso », disse Charmaine alla porta della camera chiusa. « La caccia è finita. »

 

44

 

C'era soprattutto un pensiero che Marty non riusciva a togliersi dalla testa: il fatto che lei avesse raccontato a Flynn tutto ciò che lo riguardava, svelandogli i segreti della loro vita in comune. Immaginava Flynn disteso sul letto con su le calze, che la accarezzava e rideva mentre lei gli raccontava tutte le loro porcherie. Come Marty avesse speso tutti i soldi ai cavalli o a poker; come non avesse mai avuto fortuna in vita sua per più di cinque minuti (avrebbero dovuto vederlo oggi - avrebbe proprio voluto dirglielo - le cose sono cambiate, davvero un culo sfacciato); come fosse bravo a letto solo le rare volte in cui vinceva e quanto se ne fregasse altrimenti; come avesse perso la macchina, poi la televisione, poi i loro mobili, e tutti i debiti che aveva ancora. Come se ne fosse andato cercando di tirarsi fuori dai debiti. E come, anche in quella occasione, avesse fallito miseramente.

Rivisse nuovamente l'inseguimento, e quel ricordo era doloroso come sempre. La macchina piena dell'acuto odore di cordite del fucile che Nygaard stava maneggiando. Il sudore che gli colava gelido lungo il corpo. Era tutto così chiaro, sembrava fosse successo il giorno prima. Da allora ogni cosa, circa dieci anni della sua vita, ruotavano attorno a quei pochi minuti. Il solo pensiero lo fece stare quasi male fisicamente. Sprecato. Tutto sprecato.

Era ora di ubriacarsi. Il denaro che gli era rimasto in tasca - stretto fra le dita -chiedeva di essere speso o puntato su qualcosa. Si incamminò verso Commercial Road e prese un altro taxi, senza sapere esattamente che cosa fare. Erano solo le sette: doveva organizzarsi la serata che aveva davanti. Che cosa avrebbe fatto Papà? si chiese. Tradito e lasciato nella merda, che cosa avrebbe fatto il grande uomo?

Tutto quello che il suo cuore desiderava, ecco la risposta; tutto quello che il suo fottuto cuore desiderava.

Andò alla Euston Station e rimase mezz'ora nel bagno, lavandosi e mettendosi il vestito e la camicia nuovi: ne uscì trasformato. Diede al guardiano i vestiti che indossava prima, insieme a una banconota da dieci sterline.

Quando si fu cambiato, parte della vecchia sicurezza sembrò tornare a scorrergli nelle vene. Gli era piaciuta l'immagine che aveva visto riflessa nello specchio: quella serata avrebbe potuto risultare vincente, a condizione che non si aspettasse troppo. Bevve qualcosa a Covent Garden, quel tanto che bastava per riconciliare il sangue con lo spirito, poi cenò in un ristorante italiano. Quando uscì, la gente stava uscendo da teatro: raccolse qualche occhiata d'approvazione, soprattutto da donne di mezza età e da giovanotti ben pettinati. Probabilmente ho l'aria da gigolò, pensò; c'era una certa disparità fra il suo vestito ed il suo viso, segno evidente di un uomo che sta recitando una parte. Questo pensiero lo rallegrò. Da quel momento avrebbe recitato la parte di Martin Strauss, uomo di mondo, come meglio avesse potuto. Rappresentare se stesso non l'aveva portato molto lontano. Forse una finzione avrebbe aiutato i suoi tentativi di miglioramento.

Camminò senza meta lungo Charing Cross Road e arrivò a Trafalgar Square, piena di traffico e di pedoni. C'era stata una rissa sui gradini di St Martin's-in-the-Field: due uomini si stavano lanciando insulti e accuse mentre le mogli li guardavano.

Oltre la piazza, dietro il Mall, il traffico si faceva meno caotico. Gli ci vollero parecchi minuti per riuscire a orientarsi. Sapeva dove stava andando, e pensava di sapere come fare per arrivarci, ma a quel punto non ne era più tanto sicuro. Era tanto tempo che non passava di lì e quando finalmente si trovò vicino alle piccole scuderie che contenevano l'Accademia - il club di Bill Toy - si accorse che c'era arrivato per puro caso.

Mentre saliva i gradini, il cuore si mise a battere un po' più in fretta. L'opera che si apprestava a recitare doveva essere bene interpretata: se avesse fallito, la serata sarebbe stata rovinata. Si fermò un attimo per accendersi un sigaro, poi entrò.

Un tempo era solito frequentare casinò di classe; questo aveva la stessa grandeur retro di tanti altri da lui ben conosciuti; rivestimenti in legno scuro, tappeti color prugna, ritratti di luminari ormai dimenticati alle pareti. Con una mano nella tasca dei pantaloni, e la giacca sbottonata per far vedere lo splendore della fodera, attraversò il foyer a mosaico che portava al banco dell'ingresso. Il controllo doveva essere rigoroso: i ricchi si aspettano posti sicuri e tranquilli. Non era un membro dei club e nemmeno poteva sperare di diventarlo sul momento: non senza delle referenze o qualcuno che lo presentasse. L'unico modo che aveva per passare una bella serata giocando era quello di bluffare per riuscire ad entrare.

La fanciulla al banco gli sorrise con aria benevola. « Buona sera, signore. »

« Come sta questa sera? »

Non smise di sorridere nemmeno per un istante, anche se non poteva assolutamente sapere chi fosse quell'uomo.

« Bene. E lei? »

« È una serata stupenda. Bill è già arrivato? »

« Mi scusi? »

« Il signor Toy. È già arrivato? »

« Il signor Toy », ripeté lei, consultando il libro degli invitati, e facendo scorrere un dito lungo la lista degli scommettitori di quella notte. « Non credo che... »

« Non avrà firmato », disse Marty. « Ma è membro del club, grazie a Dio. » La leggera irritazione nella sua voce disorientò la ragazza.

« Oh... capisco. Non mi sembra di conoscerlo. »

« Beh, non ha importanza. Inizierò ad andare avanti. Per favore, gli dica che sono ai tavoli. »

« Un attimo signore. Non ho... »

La ragazza si alzò, come se volesse trattenerlo per una manica, ma poi ci ripenso. Lui le stava sorridendo in modo disarmante, salendo le scale.

« Il suo nome, scusi? »

« Signor Strauss », disse con una punta di irritazione.

« Certo, naturalmente. » Il finto riconoscimento la fece arrossire.

« Mi dispiace, signor Strauss. È solo che... »

« È tutto a posto », rispose lui con aria benevola, continuando a salire mentre lei, dal basso, continuava a fissarlo.

Impiegò solo pochi minuti per rendersi conto della disposizione delle varie stanze. Roulette, poker, blackjack: c'era veramente di tutto. L'atmosfera era seria: le frivolezze non erano ammesse in quel luogo dove il denaro poteva essere vinto o perso in quantità enormi. Se gli uomini e le poche donne che frequentavano queste stanze silenziose si divertivano, certamente non lo davano a vedere. Si trattava di lavoro: un serio e duro lavoro. Naturalmente c'erano degli scambi di opinione sulle scale e nei corridoi - e spesso delle chiamate fra i vari tavoli, ma per il resto l'interno del casinò era avvolto in un silenzio reverenziale.

Gironzolò da una stanza all'altra, osservando prima un gioco e poi un altro, cercando di familiarizzare con il cerimoniale di quel posto. Nessuno gli fece troppo caso: era perfettamente a suo agio in quel paradiso ossessivo.

Voleva assaporare in anticipo il momento in cui si sarebbe seduto a giocare, e questa sensazione lo rese felice: decise di aspettare ancora un po'. Dopo tutto, aveva l'intera notte per divertirsi e sapeva fin troppo bene che il denaro che aveva in tasca sarebbe scomparso nel giro di pochi minuti se non fosse stato più che attento. Andò al bar, ordinò un whisky con ghiaccio e si mise ad osservare i suoi compagni di bevuta. Erano lì tutti per la stessa ragione: opporre la propria intelligenza alla fortuna. La maggior parte stava bevendo da sola, concentrandosi sui giochi futuri. Più tardi, se avessero vinto, si sarebbero messi a ballare sul tavolo, magari improvvisando uno spogliarello con un'amica ubriaca. Ma era ancora troppo presto.

Arrivò il cameriere. Un giovanotto di vent'anni al massimo, con un paio di baffi dall'aria posticcia: aveva già imparato a comportarsi con quel misto di servilismo e di superiorità che era tipico della sua professione.

« Mi scusi, signore... » disse.

Lo stomaco di Marty ebbe un sobbalzo. Qualcuno si era forse accorto del suo bluff?

« Sì? »

« Scotch o Bourbon, signore? »

« Oh. Ehm... Scotch. »

« Molto bene, signore. »

« Me lo porti al tavolo. »

« Dove la posso trovare, signore? »

« Roulette. »

Il cameriere se ne andò. Marty andò alla cassa e cambiò ottocento sterline in fiches, poi entrò nella stanza della roulette.

Non era mai stato un grande giocatore con le carte. Era necessaria una certa tecnica e lui era sempre stato troppo pigro per impararla. Tuttavia ammirava molto l'abilità dei grandi giocatori, quell'abilità che li rendeva così unici. Un buon giocatore usava la fortuna, un grande giocatore la dominava. La roulette invece, sebbene anch'essa avesse i suoi sistemi e le sue tecniche, era un gioco più puro. Niente aveva il fascino della ruota che girava: i numeri che appaiono offuscati, la pallina che saltella, poi sembra posarsi ma saltella di nuovo.

Si sedette al tavolo fra un arabo molto profumato che parlava solo francese e un americano. Nessuno di loro proferì parola: lì non si usavano certo i saluti. Tutte le gentilezze che caratterizzano le relazioni umane erano bandite in nome degli affari. Era come una strana malattia. I sintomi ricordavano quelli di un'infatuazione - palpitazioni, insonnia. L'unica cura efficace, la morte. Gli era capitato in un paio di occasioni di osservare la sua immagine riflessa nello specchio del bar di un casinò, oppure nel separé della cassa: una visione affamata e braccata. Eppure niente - né il disgusto per se stesso, né il disprezzo degli amici - niente era riuscito a togliergli quell'appetito.

Il cameriere gli portò quanto ordinato, e nel bicchiere tintinnava il ghiaccio. Marty gli diede una grossa mancia.

La ruota iniziò a girare anche se Marty era arrivato troppo tardi al tavolo per poter puntare. Tutti gli occhi erano fissi sui numeri che giravano ...

Solo dopo un'ora o forse più Marty lasciò il tavolo: il tempo di liberarsi la vescica e poi tornò nuovamente al suo posto. I giocatori andavano e venivano. L'americano si mostrò accondiscendente nei confronti della giovane spigolosa che lo accompagnava e lasciò che fosse lei a decidere: perse una piccola fortuna e abbandonò il tavolo. Le riserve di Marty se ne stavano andando lentamente. Aveva vinto, poi perso, poi vinto: poi perso, perso e ancora perso. La sconfitta non lo aveva troppo abbattuto. Dopo tutto non erano soldi suoi e, come Whitehead aveva più volte osservato, ce ne sarebbero stati ancora molti per lui. Aveva ancora abbastanza fiches per un'ultima puntata, ma decise di alzarsi un attimo per fare una pausa. Aveva scoperto che a volte, abbandonando il tavolo per pochi minuti e ritornandoci più concentrati, la fortuna girava.

Mentre si alzava dal tavolo con gli occhi pieni di numeri, qualcuno entrò nella stanza della roulette e diede un'occhiata prima di passare alla stanza a fianco. Pochi secondi furono sufficienti a riconoscerlo.

L'ultima volta che Marty aveva visto quella faccia, questa era mal rasata, pallida e sofferente, illuminata dai fasci di luce lungo lo steccato del santuario. Ora Mamoulian appariva trasformato. Non era più il derelitto angosciato messo con le spalle al muro. Marty si ritrovò a camminare verso la porta come fosse stato ipnotizzato. Il cameriere era di fianco a lui - « Un altro whisky, signore? » - ma la domanda non ottenne risposta, mentre Marty usciva dalla stanza della roulette verso il corridoio. Sentimenti contrastanti si confondevano in lui: era abbastanza spaventato per aver riconosciuto quell'uomo, ma allo stesso tempo eccitato e curioso di sapere perché fosse lì. Sicuramente non si trattava di una coincidenza. Forse c'era Toy con lui. Forse l'intero mistero si sarebbe chiarito. Guardò Mamoulian che entrava nella stanza del baccarat. Stavano giocando una partita particolarmente accesa e gli spettatori si erano ammassati per assistere alle fasi conclusive. La stanza era piena: i giocatori degli altri tavoli avevano smesso di giocare per assistere a quello spettacolo. Persino i camerieri si attardavano lì attorno, cercando di vedere qualcosa.

Mamoulian si fece largo fra la folla per riuscire a vedere meglio, si distingueva la sua figura sottile e grigia che si apriva un varco. Quando finalmente trovò un buon punto di osservazione, si fermò, con il viso pallido illuminato della stessa luce che rischiarava il tavolo da gioco. La mano ferita era nascosta nella tasca della giacca, fuori vista; le spesse sopracciglia non conferivano al volto la benché minima espressione. Marty continuò a guardarlo per più di cinque minuti. Gli occhi dell'Europeo non si staccarono per un solo istante dal gioco che si stava svolgendo di fronte a lui. Sembrava un pezzo di marmo: una facciata sfavillante nella quale un artista distratto aveva scolpito qualche segno. Sembrava che gli occhi, incassati nelle orbite, fossero capaci solo di fissare senza interruzione. Eppure quell'uomo emanava uno strano potere. Era sorprendente vedere come la gente se ne stesse alla larga da lui, addossandosi gli uni agli altri ma evitando di avvicinarglisi troppo.

Dall'altra parte della stanza, Marty incrociò lo sguardo con il cameriere baffuto. Si fece largo fra gli spettatori e raggiunse il giovanotto.

« Una cosa », bisbigliò.

« Mi dica pure, signore. »

« Quell'uomo. Con il vestito grigio. »

E cameriere lanciò un'occhiata verso il tavolo, poi disse:

« Il signor Mamoulian ».

« Sì. Che cosa sai di lui? »

Il cameriere guardò Marty con aria di rimprovero. « Mi spiace, signore. Non siamo autorizzati a parlare dei soci. »

Si girò e andò nel corridoio. Marty lo seguì. Era vuoto. Al piano di sotto, la ragazza alla cassa - non era la stessa con la quale aveva parlato lui - stava ridacchiando con l'addetto al guardaroba.

« Aspetta un momento. »

Quando il cameriere si voltò, Marty aveva in mano il portafogli ancora sufficientemente pieno per poter offrire una buona ricompensa. L'altro puntò gli occhi sulle banconote con malcelata avidità.

« Voglio solo farti qualche domanda. Non voglio sapere il numero del suo conto corrente. »

« Comunque non glielo saprei dire », affermò il cameriere con aria compiaciuta. « È della polizia? »

« Sono solo interessato al signor Mamoulian », disse Marty, offrendogli cinquanta sterline in banconote da dieci. « Solo qualche informazione su di lui. »

Il cameriere afferrò il denaro e se lo mise in tasca con la velocità tipica di chi è abituato a farsi comprare.

« Cosa vuole sapere? » chiese.

« Viene qui regolarmente? »

« Un paio di volte al mese. »

« A giocare? »

Il cameriere aggrottò le sopracciglia. « Ora che me lo ha detto, non credo di averlo mai visto giocare davvero. »

« Si limita a guardare, quindi. »

« Beh, non ne sono sicuro. Ma credo che se mai avesse giocato, sicuramente l'avrei notato. Strano. Comunque abbiamo qualche socio che si comporta così. »

« E ha qualche amico? Qualcuno che arriva con lui o che se ne va con lui? »

« No, che io mi ricordi. Una volta era molto amico di una signora greca che aveva l'abitudine di venire qui a giocare. Vinceva sempre un sacco di soldi. Non ha mai perso. »

Per un giocatore questo equivaleva alla storia del pescatore: la classica storia del giocatore con un sistema infallibile che lo faceva sempre vincere.

Marty l'aveva sentita centinaia di volte. Si trattava sempre dell'amico di un amico, un personaggio fantomatico che nessuno riusciva a incontrare di persona. Eppure, pensando al viso di Mamoulian, così calcolato nella sua indifferenza, riusciva mai quasi a convincersi che quella storia potesse essere vera.

« Perché le interessa così tanto quell'uomo? » chiese il cameriere.

« Mi fa una strana impressione. »

« E non è il solo. »

« Che cosa intendi dire? »

« A me non ha mai detto né fatto niente, sia chiaro », spiegò il cameriere. « Ha sempre dato delle buone mance anche se, diamine, non beve altro che acqua minerale. Ma c'era un tale che era solito venire qui, sarà stato un paio di anni fa, un americano che veniva da Boston. Quando vide Mamoulian per un pelo non gli venne un colpo. Sembravano padre e figlio; due gocce d'acqua, le dico. Anch'io ne fui sorpreso: insomma, non riesco ad immaginarmi quel tipo con un padre, non mi pare proprio il tipo. »

Il cameriere aveva colpito nel segno. Era impossibile immaginare Mamoulian

bambino o adolescente foruncoloso. Era mai stato innamorato? Aveva mai

sofferto per la morte di qualche suo animale o di qualcuno a lui caro? Tutto

questo sembrava assolutamente improbabile.

« È tutto quello che so, davvero. »

« Grazie », rispose Marty. Era sufficiente.

Il cameriere se ne andò lasciando Marty a rimuginare su quanto aveva saputo. La cosa più probabile era che fossero leggende apocrife: la greca con il sistema infallibile, l'americano in preda al panico. Era naturale che un uomo come Mamoulian desse vita a molte dicerie; quella sua aria da aristocratico decaduto ispirava l'invenzione di storie. Era come una cipolla che veniva pelata, pelata e ancora pelata, e ogni pelle ne nascondeva una simile, rendendo difficile la ricerca del nucleo più interno.

Stanco e confuso per il troppo bere e il poco sonno, Marty decise di terminare quella serata. Avrebbe usato il centinaio di sterline che ancora gli rimanevano per pagare un tassista affinché lo riportasse fino alla tenuta: avrebbe lasciato la macchina e sarebbe passato a riprenderla un altro giorno. Era troppo ubriaco per guidare. Lanciò un'ultima occhiata alla stanza del baccarat. Stavano ancora giocando; Mamoulian non si era mosso dal suo posto.

Marty scese nei bagni. Faceva un po' più freddo che all'interno del club: i decori in stile rococò apparivano ridicoli considerando l'uso che veniva fatto di quel locale. Guardò la sua faccia stanca riflessa nello specchio, poi andò a fare i propri bisogni nell'orinatoio.

Dietro una delle porte, qualcuno aveva iniziato a singhiozzare, ma in modo molto sommesso, come se volesse attutire il suono.

Nonostante la vescica dolorante, Marty non riusciva a pisciare: quel pianto anonimo lo angosciava troppo. Proveniva da una delle porte chiuse dell'orinatoio. Probabilmente si trattava di qualche ottimista che aveva perso anche la camicia ai dadi, e stava ora rendendosi conto delle conseguenze. Marty lo lasciò al suo destino. Non c'era niente che potesse dire o fare, lo sapeva bene per esperienza diretta.

Nell'ingresso, la donna del banco lo chiamò.

« Il signor Strauss? » Ancora quella fanciulla. Non aveva l'aria stanca, nonostante fosse già tardi. « Ha trovato il signor Toy? »

« No, non l'ho visto. »

« Oh, è strano. Eppure era qui. »

« Ne è sicura? »

« Certo. È arrivato con il signor Mamoulian. Gli ho detto che lei era qui, e che aveva chiesto di lui. »

« E che cosa ha detto? »

« Niente », rispose la ragazza. « Nemmeno una parola. » Abbassò la voce. « Crede che stia bene? Voglio dire che aveva un aspetto orribile, lasci che glielo dica. Una bruttissima cera. »

Marty lanciò un'occhiata su per le scale, esaminando il pianerottolo.

« È ancora qui? »

« Non sono rimasta qui al banco per tutta la sera, ma non l'ho visto uscire. »

Marty salì i gradini due alla volta. Aveva voglia di vedere Toy. Aveva parecchie domande da porgli, e qualche confidenza da fargli. Perlustrò le varie stanze, cercando quel volto avvizzito. Mamoulian era ancora lì, e stava sorseggiando la sua acqua minerale, ma Toy non si vedeva. E nemmeno riuscì a trovarlo in nessuno dei bar. Chiaramente era venuto e se n'era andato. Deluso, Marty ritornò dabbasso, ringraziò la ragazza per le informazioni, le diede una grossa mancia e se ne andò.

Fu solo più tardi, quando si fu allontanato dall'Accademia, camminando in mezzo alla strada per cercare di fermare un taxi, che si ricordò dei singhiozzi nel bagno. Rallentò il passo. Alla fine si fermò in mezzo alla strada, con la testa che rimbombava al ritmo del cuore. Era solo un'impressione nata a posteriori, o quella voce gli era davvero sembrata familiare, mentre ripiegata,su se stessa dava sfogo al suo dolore? Non era forse Toy, seduto nella discutibile intimità dell'orinatoio, che piangeva come un bambino impaurito?

Come in un sogno, Marty si voltò a guardare la strada dalla quale era venuto. Se aveva il sospetto che Toy potesse essere ancora al club, non doveva forse tornare indietro e tentare di scoprirlo? Ma la sua testa stava riflettendo su alcune strane e spiacevoli coincidenze. La donna che aveva risposto al numero di Pimlico e la cui voce era troppo orribile per poterla ascoltare; quella domanda della ragazza del banco: « Crede che stia bene? »; la profondità della disperazione che aveva udito provenire da quella porta chiusa. No, non poteva ritornare indietro. Niente, nemmeno la promessa di un sistema infallibile capace di battere tutti i tavoli di quella casa lo avrebbe convinto a ritornare. Dopo tutto esisteva sempre quella cosa chiamata dubbio ragionevole; in alcuni casi poteva essere una soluzione senza eguali.

 

VIII

 

Una situazione difficile

 

45

 

Il giorno dell'Ultima Cena, come ormai l'aveva definita, Marty si fece la barba tre volte: una volta al mattino e due volte nel pomeriggio. L'iniziale compiacimento per tale invito se ne era già andato da tempo. Ora doveva solo trovare qualche espediente adatto alla circostanza, un modo educato per riuscire a scappare da quella che si preannunciava essere una serata angosciante. Non c'era posto per lui nella cerchia di Whitehead. I loro valori non erano certo i suoi; e nel loro mondo lui non era altro che un dipendente. Non c'era niente in lui che potesse dare loro qualcosa, a parte qualche minuto di svago.

Fu solo nell'attimo in cui si infilò la giacca del vestito che iniziò a sentirsi più coraggioso. In quel mondo di apparenze, perché non avrebbe dovuto far trionfare l'illusione come faceva quell'altro uomo? Dopo tutto, c'era riuscito all'Accademia. Il trucco stava nel trovare il giusto equilibrio - il modo di portare il vestito, la corretta direzione da prendere per entrare in scena. Iniziava a considerare la serata che lo aspettava come un modo per mettere alla prova la sua intelligenza, e il suo naturale spirito competitivo iniziò ad accettare la sfida. Li avrebbe sfidati al loro stesso gioco, fra i cristalli scintillanti e le discussioni di opere e di alta finanza.

Perfettamente rasato, vestito e profumato, scese in cucina. Stranamente, Pearl non c'era: era Luther l'incaricato che si occupava delle ghiottonerie per la serata. Stava aprendo delle bottiglie di vino: la stanza profumava di fragranti aromi mescolati. Anche se Marty era convinto che si trattasse di una riunione per pochi, c'erano diverse dozzine di bottiglie sul tavolo; le etichette di alcune erano così sporche da risultare quasi illeggibili. Sembrava che la cantina fosse stata svuotata delle migliori bottiglie d'annata.

Luther squadrò Marty dalla testa ai piedi.

« A chi hai rubato quel vestito? »

Marty prese una bottiglia dal tavolo e l'annusò, ignorando la domanda. Quella notte non si sarebbe fatto innervosire: aveva organizzato tutto troppo bene per rovinarlo in quel modo.

« Ti ho chiesto: a chi hai... »

« Ho capito benissimo. L'ho comperato. »

« E con che cosa? »

Marty appoggiò pesantemente la bottiglia. I bicchieri sul tavolo tintinnarono uno contro l'altro.

« Perché non chiudi il becco? »

Luther alzò le spalle. « Te l'ha dato il vecchio? »

« Te l'ho già detto. Piantala. »

« Mi sembra che te la stia prendendo troppo, vecchio mio. Sai almeno che sarai l'ospite d'onore di questa festicciola? »

« Si tratterà solo di incontrare qualche amico del vecchio, ecco tutto. »

« Ti riferisci a Dwoskin e a quegli altri fottuti? E non sei tu il fortunato? »

« Sì, e tu cosa sei questa sera: il ragazzo del vino? »

Luther fece una smorfia togliendo il turacciolo dell'ennesima bottiglia. « Non ci sono camerieri in queste loro feste. Sono molto riservate. »

« Cosa intendi dire? »

« E che ne so? » rispose Luther alzando le spalle. « Sono una delle tre scimmiette, non è vero? »

 

Le macchine iniziarono ad arrivare al santuario fra le otto e le otto e mezzo. Marty rimase nella sua stanza, aspettando di essere invitato a unirsi al resto degli ospiti. Udì la voce di Curtsinger, poi quella di alcune donne; qualcuno rideva, altri parlavano con voce stridula. Era curioso di sapere se si erano portati soltanto le mogli o anche le figlie.

Squillò il telefono.

« Marty. » Era Whitehead.

« Signore? »

« Perché non sali a raggiungerci? Ti stiamo aspettando. »

« D'accordo. »

« Siamo nella sala bianca. » Un'altra sorpresa. Quella stanza così spoglia, con quell'orribile pala d'altare, non sembrava certo il luogo più adatto per una festa.

Fuori stava calando la notte e prima di salire nella sala, Marty accese le luci che davano sul prato. Le luci si accesero e il loro effetto si rifletté anche nell'interno della casa. L'agitazione di prima si era trasformata in un misto di sfida e di fatalismo. Fino a quando non avesse sputato nel piatto - disse a se stesso -sarebbe riuscito ad andare avanti.

« Vieni pure avanti, Marty. »

L'atmosfera all'interno della sala bianca era già soffocante a causa della grande quantità di fumo di sigaro e di sigaretta. Non era stato fatto nessuno sforzo per rendere più presentabile il locale. L'unica decorazione era il trittico: quella crocifissione così violenta che Marty ricordava bene. Whitehead rimase in piedi mentre Marty faceva il suo ingresso, e gli tese le mani in segno di benvenuto, con un largo sorriso sulle labbra.

« Ti spiace chiudere la porta? Entra e siediti. »

A tavola c'era soltanto un posto vuoto e Marty si accomodò.

« Conosci già Felix, naturalmente. »

Ottaway, il famoso avvocato, annuì. La lampadina lanciò un fascio di luce sul suo cranio, rivelando i bordi del suo toupé.

« E Lawrence. »

Dwoskin - un tipo magro e chiacchierone - stava bevendo un sorso di vino. Mormorò qualcosa in segno di saluto.

« E James. »

« Salve », disse Curtsinger. « Sono felice di incontrarla di nuovo. » Il sigaro che aveva in mano era probabilmente il più grosso che Marty avesse mai avuto modo di vedere.

Esaurite le facce familiari, Whitehead passò alla presentazione delle tre donne sedute vicino agli uomini.

« I nostri ospiti di stasera », disse.

« Molto lieto. »

« Quest'uomo è praticamente la mia guardia del corpo, Martin Strauss. »

« Martin. » Oriana, una donna di circa trentacinque anni, lo guardò un po' di traverso, sorridendo. « Lieta di conoscerla. »

Whitehead non usava i cognomi e quindi Marty iniziò a chiedersi se quella era la moglie di uno dei tre oppure soltanto un'amica. Era di gran lunga più giovane di Ottaway e di Curtsinger, fra i quali era seduta. Forse era l'amante. L'idea era allettante.

« Questa è Stephanie. »

Stephanie, più anziana della prima di una decina d'anni, diede a Marty un'occhiata che parve volerlo spogliare da capo a piedi. Era così imbarazzante e schietta allo stesso tempo, che Marty si chiese se anche gli altri invitati attorno al tavolo l'avevano notata.

« Abbiamo sentito parlare molto di lei », disse la donna, appoggiando una mano languida sul braccio di Dwoskin. « Non è così? » Dwoskin rise compiaciuto. Marty provava per quell'uomo la solita, forte ripugnanza. Era difficile immaginare come e perché un essere umano potesse desiderare di toccarlo.

« ... e infine, Emily. »

Marty si girò per salutare la terza faccia nuova seduta al tavolo. Mentre lo faceva, Emily rovesciò un bicchiere di vino rosso.

« Accidenti! » esclamò.

« Non è niente », disse Curtsinger con una smorfia. Era già ubriaco, come poté notare Marty; la smorfia era esagerata per uno sobrio. « Non è davvero successo niente, tesoro. Niente, sul serio. »

Emily alzò gli occhi verso Marty. A giudicare dal colorito delle sue guance, anche lei aveva bevuto un po' troppo. Era di gran lunga la più giovane delle tre donne, ed era dotata di un fascino seducente.

« Seduti. Seduti », invitò Whitehead. « Non preoccuparti per il vino, per l'amor del cielo. » Marty si era seduto a fianco di Curtsinger. Il vino che aveva rovesciato Emily si era sparso sulla tovaglia, raggiungendo il bordo del tavolo, inarrestabile.

« Stavamo giusto dicendo... », si intromise Dwoskin, « che è un peccato che Willy non sia potuto venire. »

Marty lanciò un'occhiata al vecchio per vedere se l'accenno a Toy ogni volta che ci pensava gli ritornava in mente il suono di quei singhiozzi - avesse provocato una qualsiasi reazione. Niente. Anche lui Marty se ne rese conto in quel momento - aveva bevuto troppo. Le bottiglie che Luther aveva aperto - il Chiaretto, il vino di Borgogna ricoprivano il tavolo; l'atmosfera ricordava più un picnic che una cena. Non c'era traccia dei cerimoniali che si sarebbe aspettato: né l'ordine meticoloso delle portate, né le posate in grande numero. Il cibo offerto -scatolette di caviale con infilati i cucchiaini, formaggi, piccoli crackers - aveva un'importanza secondaria rispetto al vino. Sebbene Marty ne sapesse poco di vino, i suoi sospetti circa lo svuotamento della cantina da parte del vecchio erano confermati dalle chiacchiere che venivano scambiate al tavolo. Si erano riuniti tutti quella sera per far fuori le scorte dei più delicati e dei più famosi vini del santuario.

« Beviamo! » disse Curtsinger. « È la miglior roba che si possa buttare giù, credetemi » Si mise a cercare una particolare bottiglia in mezzo alle altre. « Dov'è il Latour? Non l'abbiamo ancora finito, vero? Stephanie, l'hai per caso nascosto tu, tesoro? »

Stephanie alzò lo sguardo dai suoi bicchieri. Marty dubitava perfino che sapesse di che cosa stava parlando Curtsinger. Queste donne non erano mogli, di questo era assolutamente certo. Dubitava perfino che fossero amanti.

« Ecco! » disse Curtsinger, riempiendo a Marty un bicchiere con aria distratta. « Vediamo cosa ne fa. »

A Marty il vino non era mai piaciuto molto. Era una bevanda che andava sorseggiata e gustata in bocca, e lui non aveva abbastanza pazienza. Ma l'aroma che proveniva dal bicchiere sapeva di vino di qualità anche per un palato poco esperto come il suo. Il ricco profumo di quel vino accentuò la sua salivazione, e la fragranza del liquido, al tatto delle papille gustative, risultò incredibilmente sublime.

« Buono, eh? »

« Un gusto gradevole. »

« Un gusto gradevole », lo scimmiottò Curtsinger, fingendosi scandalizzato. « Il ragazzo l'ha definito un gusto gradevole. »

« E meglio ripassare la bottiglia prima che se la scoli tutta », fece notare Ottaway.

« Bisogna finire tutto », interloquì Whitehead, « questa notte. »

« Tutto? » disse Emily, osservando le altre due decine di bottiglie appoggiate contro il muro: liquori e cognac in mezzo ai vini.

« Sì, tutto. Siamo qui per finire il meglio delle scorte. »

Cosa stava succedendo? Sembravano un esercito in ritirata, pronti a radere tutto al suolo piuttosto che lasciare qualcosa agli occupanti futuri .

« Che cosa berrete la settimana prossima? » chiese Oriana, con un cucchiaio colmo di caviale in bilico all'altezza della scollatura.

« La settimana prossima? » esclamò Whitehead. « Non ci saranno feste la settimana prossima. Andrò in un monastero. » Rivolse lo sguardo su Marty. « Marty sa che sono un uomo inquieto. »

« Inquieto? » chiese Dwoskin.

« Preoccupato per la mia anima immortale », rispose Whitehead, senza togliere gli occhi da Marty. Questa frase provocò uno scoppio di risa in Ottaway, che stava rapidamente perdendo il controllo di se stesso.

Dwoskin si sporse in avanti e riempì di nuovo il bicchiere a Marty. « Bevi », lo invitò. « Abbiamo un sacco di roba da finire. »

Non c'era più il lento sorseggiare di prima al tavolo: i bicchieri venivano riempiti, scolati e ancora riempiti come se il vino fosse acqua. Sembrava ci fosse qualcosa di disperato nella loro voracità. Ma avrebbe dovuto saperlo che Whitehead non faceva mai le cose a metà. Per non essere da meno, Marty scolò il secondo bicchiere in due sorsi, poi lo riempì di nuovo fino all'orlo.

« Com'è? »

« Willy non approverebbe », borbottò Ottaway.

« Che cosa: il signor Strauss? » chiese Oriana. Il caviale non era ancora riuscito ad arrivare alla bocca.

« No, non Martin. Questo consumo indiscriminato... »

Le ultime due parole uscirono a fatica dalla bocca impastata. In un certo senso era divertente vedere un avvocato con la lingua ingarbugliata.

« Toy può andare a farsi fottere », esclamò Dwoskin. Marty avrebbe voluto dire qualcosa in difesa di Bill, ma l'alcol aveva rallentato i suoi riflessi e prima ancora che potesse parlare, Whitehead aveva già levato il bicchiere.

« Un brindisi », annunciò.

Dwoskin si alzò barcollando, urtando una bottiglia vuota che a sua volta ne fece cadere altre tre. Il vino iniziò a fuoriuscire da una delle bottiglie rovesciate, bagnando la tovaglia e finendo sul pavimento.

« A Willy! » disse Whitehead, « ovunque egli sia. »

Tutti levarono i bicchieri per brindare, anche Dwoskin.

« A Willy! »

I bicchieri vennero vuotati rumorosamente. Ottaway riempì di nuovo il bicchiere di Marty.

« Bevi, vecchio mio, bevi! »

Nello stomaco vuoto di Marty, il vino iniziava a creare qualche problema.

Si sentiva fuori posto in quella stanza: lontano dalle donne, dall'avvocato, dalla crocifissione sul muro. Lo choc iniziale, provocato dalla vista di quegli uomini, col mento e la camicia sporchi di vino, se n'era ormai andato. Il loro comportamento non era importante. Ma lo era il cercare di buttare giù quanta più roba possibile fra quei vini. Scambiò un'occhiata minacciosa con il Cristo dell'altare. « Vai a farti fottere », disse a bassa voce. Curtsinger udì l'imprecazione. « Lo stesso per te », rispose.

« Dov'è Willy? » stava chiedendo Emily. « Credevo che fosse qui. » Rivolse la domanda al tavolo, ma nessuno sembrava avere voglia di rispondere.

« Se ne è andato », rispose alla fine Whitehead.

« È un tipo così simpatico », disse la ragazza. Diede una gomitata a Dwoskin nelle costole. « Non dicevi anche tu che era un tipo simpatico? »

Dwoskin sembrava innervosito per tutte quelle interruzioni. Aveva iniziato a maneggiare in modo maldestro la cerniera del vestito di Stephanie. Lei non oppose alcuna resistenza a questa pubblica avance. Il bicchiere che lui aveva in mano gli sgocciolava direttamente sulle gambe, ma non ci fece caso.

Whitehead colse l'occhiata di Marty.

« Una serata divertente, non è vero? » chiese.

Marty fece sparire il sorriso nascente sul suo volto.

« Non approvi? » gli chiese Ottaway.

« Non sono fatti miei. »

« Ho sempre avuto l'impressione che i criminali avessero un cuore piuttosto puritano. Non è forse vero? »

Marty tolse lo sguardo dai lineamenti alterati dall'alcol dell'avvocato e scosse la testa. La frecciata indicava un malcelato disprezzo.

« Se fossi in te, Marty », disse Whitehead dall'altra parte del tavolo, « gli romperci l'osso del collo. »

Marty scrollò le spalle. « Perché prendersi la briga di farlo? » domandò.

« Dopo tutto, mi sembra che tu non sia tanto pericoloso », continuò Ottaway.

« Chi ha detto che sono pericoloso? »

Sul viso dell'avvocato apparve un sorriso ancora più grande.

« Lo credevo io. Ci aspettavamo un'azione bestiale, sai? » Ottaway spostò una bottiglia per poter vedere meglio Marty. « Ci avevano promesso... » La conversazione attorno al tavolo si era interrotta, ma Ottaway non sembrò farci caso. « Invece, niente di tutto quello che era stato annunciato... » disse. « Intendo dire, chiedi a uno di questi gentiluomini abbandonati da Dio. » Il tavolo sembrava un quadro di natura morta; il braccio di Ottaway gesticolava per includere tutti nella sua invettiva. « Lo sappiamo, non è vero? Sappiamo come può essere spiacevole la vita. »

« Chiudi il becco! » lo zittì Curtsinger. Fissò con aria confusa Ottaway. « Non vogliamo ascoltarti. »

« Potremmo non avere un'altra occasione, mio caro James », replicò Ottaway con sprezzante cortesia. « Non credi che dovremmo tutti ammettere la verità? Siamo in extremis! Eh sì, amici miei. Dovremmo metterci tutti in ginocchio e confessare! »

« Già, già », disse Stephanie. Stava cercando di reggersi in piedi ma le sue gambe non erano dello stesso avviso. Il vestito, con la cerniera aperta, minacciava di scivolare. « E allora confessiamo! » ridacchiò.

Dwoskin la spinse indietro sulla sedia.

« Resteremo qui tutta la notte », disse. Emily rise in modo sciocco. Imperterrito, Ottaway continuava a parlare.

« Mi sembra che lui sia l'unica persona innocente fra tutti noi. » Indicò Marty. « Mi spiego meglio. Provate a guardarlo. Non sa nemmeno di che cosa sto parlando. »

Quelle osservazioni iniziavano a innervosire Marty. Ma avrebbe avuto ben poca soddisfazione a minacciare l'avvocato. In quello stato, Ottaway si sarebbe sbriciolato alla prima frecciata. I suoi occhi cisposi non erano lontani dallo stato di incoscienza. « Mi avete deluso », mormorò Ottaway con un tono di autentico dispiacere nella voce. « Credevo che saremmo finiti in un modo migliore di questo... »

Dwoskin si alzò in piedi. « Ho un brindisi da fare », annunciò.

« Voglio brindare alle donne. »

« Questa sì che è un'idea! » si associò Curtsinger.

« Alle donne! » esclamò Dwoskin: alzarono il bicchiere. Ma nessuno lo stava ascoltando. Emily, che era rimasta docile come un agnellino fino a quel punto, decise improvvisamente che era giunto il momento di spogliarsi. Tirò indietro la sedia ed iniziò a sbottonarsi la camicia. Sotto non portava niente: i capezzoli erano rossi, come se si fossero preparati per quel momento. Curtsinger applaudì; Ottaway e Whitehead si unirono in un coro di apprezzamenti incoraggianti.

« Cosa ne dici? » chiese Curtsinger a Marty. « È il tuo tipo? Se la vuoi è tutta roba tua, non è forse vero dolcezza? »

« Vuoi toccare? » offrì Emily. Si era tolta la camicia ed era nuda dalla vita in su. « Coraggio », disse, afferrando la mano di Marty e premendola contro il suo seno, facendola ruotare nei due sensi.

« Oh, sì », disse Curtsinger guardando Marty di traverso. « Gli piace. Vi posso assicurare che gli piace. »

« Certo che gli piace », Marty sentì dire da Whitehead. Il suo sguardo non troppo a fuoco scivolò in direzione del vecchio. Whitehead lo guardò faccia a faccia: gli occhi socchiusi erano privi di espressione. « Vai avanti », lo invitò. « È tutta tua. È qui apposta per questo. » Marty udì quelle parole ma non riuscì a dar loro un senso. Ritrasse la mano dal corpo della ragazza come se la sua pelle bruciasse.

« Andate all'inferno », disse.

Curtsinger si era alzato in piedi. « Adesso non fare il rompiballe », disse a Marty con tono di rimprovero, « vogliamo solo vedere di che pasta sei fatto. »

In fondo al tavolo Oriana aveva ricominciato a ridere, e Marty non riusciva a capire di che cosa. Dwoskin stava battendo le mani sul tavolo, con i palmi all'ingiù. Le bottiglie si muovevano allo stesso ritmo.

« Vai avanti », disse Whitehead a Marty. Lo stavano guardando tutti. Lui si girò verso Emily. Era lì in piedi, a un metro di distanza, e cercava di togliere il gancio della gonna. Senza dubbio c'era qualcosa di erotico in questa sua esibizione. Marty cominciò a sentirsi eccitato. Curtsinger stava cercando di togliergli la giacca. Il tamburellare di Dwoskin sul tavolo diventava sempre più fragoroso.

Emily era riuscita a togliere il gancio, e la gonna le era caduta per terra. A quel punto, senza che nessuno glielo suggerisse, si tolse le mutandine e rimase in piedi di fronte agli invitati vestita solo di perle e di scarpe con i tacchi alti. Completamente nuda sembrava ancora più giovane, roba da finire in galera: quattordici, al massimo quindici anni. Aveva la pelle vellutata. Una mano -quella di Oriana, pensò Marty - stava carezzando la sua erezione. Si girò per metà: non era affatto Oriana, ma Curtsinger. Allontanò quella mano. Emily gli si era avvicinata e stava sbottonando la camicia partendo dall'alto. Cercò di alzarsi per dire qualcosa a Whitehead. Non aveva ancora trovato le parole giuste, ma voleva assolutamente dire qualcosa: voleva dire al vecchio che era un imbroglione. Anzi, peggio di un imbroglione: era un porco, un lurido porco. Ecco perché l'avevano invitato, riempiendolo di vino e di discorsi sporchi. Il vecchio lo voleva vedere nudo e in calore. Marty respinse per la seconda volta la mano di Curtsinger: il suo tocco era orribilmente esperto. Guardò lungo il tavolo in direzione di Whitehead, che si stava versando l'ennesimo bicchiere di vino. Gli occhi di Dwoskin erano puntati sulle nudità di Emily; quelli di Ottaway su Marty. Entrambi avevano smesso di tamburellare sul tavolo. Lo sguardo fisso dell'avvocato diceva già tutto: era incredibilmente pallido, e sul suo viso si leggeva la bramosia.

« Forza », disse respirando affannosamente. « Vai avanti, fattela. Facci vedere uno spettacolo indimenticabile. O forse non hai niente che valga la pena di mettere in mostra? »

Marty colse la battuta troppo tardi per poter rispondere: la ragazza nuda si stava strofinando contro di lui e qualcuno (Curtsinger) stava cercando di slacciargli i pantaloni. Fece un ultimo, goffo tentativo per rimanere in equilibrio.

« Li faccia smettere », mormorò, guardando il vecchio.

« Cosa c'è che non va? » chiese Whitehead.

« Lo scherzo è finito », disse Marty. Qualcuno gli aveva messo una mano nei pantaloni, e stava palpando la sua erezione. « Togli quella fottuta mano da me! » La spinta che diede a Curtsinger risultò più forte di quanto pensasse. L'uomo perse l'equilibrio e cadde contro il muro. « Che cosa cazzo avete tutti? » Emily si allontanò di un passo per evitare il braccio che Marty continuava ad agitare. Il vino gli stava ribollendo nello stomaco e in gola. I pantaloni avevano un rigonfiamento. Sapeva di avere un aspetto assurdo. Oriana stava ancora ridendo: e non solo lei, anche Dwoskin e Stephanie. Ottaway si limitava a fissarlo.

« Non avevate mai visto un cazzo duro fino ad ora? » sputò in faccia ai presenti.

« Dov'è il tuo senso dell'umorismo? » chiese Ottaway. « Volevamo solo goderci uno spettacolo dal vivo, cosa c'è di male? »

Marty puntò un dito in direzione di Whitehead. « Mi sono fidato di lei! » urlò. Fu tutto ciò che riuscì a dire per dare forma alla sua rabbia.

« È stato un errore allora, no? » fu il commento di Dwoskin. Sembrava stesse parlando ad un imbecille.

« Cazzo, vuoi chiudere il becco? » Trattenendo il desiderio di rompere la faccia a qualcuno - uno qualsiasi sarebbe andato bene - Marty si infilò la giacca e con una manata fece cadere dal tavolo una decina di bottiglie, molte delle quali ancora piene. Emily urlò quando le bottiglie caddero rompendosi vicino ai suoi piedi, ma Marty non si fermò. Passò dietro al tavolo e si diresse con passo incerto verso la porta. La chiave era nella serratura: la aprì e uscì nel corridoio. Dietro di lui Emily aveva iniziato a strillare come un bambino svegliatosi nel bel mezzo di un incubo: sentì la sua voce mentre percorreva i corridoi bui. Pregava Dio che le gambe vacillanti lo sorreggessero. Voleva uscire, fuori: nell'aria della notte. Barcollò lungo la scala posteriore, con le mani appoggiate al muro per non perdere l'equilibrio, mentre i gradini sembravano sfuggirgli da sotto i piedi. Raggiunse la cucina dopo essere caduto una sola volta, e aprì la porta che dava sul retro. La notte lo stava aspettando. Nessuno poteva vederlo, nessuno lo conosceva. Trasse un profondo respiro nella fredda aria oscura: sentì bruciare le narici e i polmoni. Si incamminò barcollando attraverso il prato, quasi cieco, senza sapere in che direzione stesse andando, fino a quando si ricordò del bosco. Dopo un attimo di esitazione per riuscire a orientarsi, corse verso il bosco, cercando la sua protezione.

 

46

 

Corse fino a quando si trovò così immerso fra le piante da non riuscire più a vedere né la casa né le luci. Solo in quel momento si fermò, con il corpo che batteva forte come un grande cuore. Gli sembrava che la testa fosse staccata dal collo; sentiva anche la bile gorgogliare in gola.

« Cristo, Cristo, Cristo. »

Per un attimo perse il controllo della testa che continuava a girare: le orecchie gli fischiavano e la vista si era annebbiata. Improvvisamente non era più sicuro di niente, nemmeno del fatto di esistere fisicamente. Dalle viscere, il panico si stava diffondendo su per la pancia e lo stomaco sotto forma di fitte.

« Vattene », gli disse. Soltanto una volta gli era capitato di sentirsi così vicino alla pazzia - gettare indietro la testa e urlare - ed era stato durante la sua prima notte a Wandsworth, la prima di una lunga serie di notti chiuso in una cella di due metri per tre. Allora si era seduto sul bordo del materasso e aveva avvertito esattamente quello che stava avvertendo in quel momento. Il mostro cieco che avanzava, spremendo adrenalina dalla milza. Allora era riuscito a controllare quel terrore, quindi avrebbe potuto riuscirci ancora. Si ficcò due dita profondamente in gola, e fu ricompensato da un acuto senso di nausea. Iniziarono le contrazioni dello stomaco, e il suo corpo fece il resto spingendolo a rigurgitare una strana sostanza piena di vino non digerito. Era una sporca esperienza di purificazione, e non fece nessuno sforzo per controllare gli spasimi fino a quando non rimase più nulla da vomitare. Con i muscoli dello stomaco ancora doloranti per le contrazioni, strappò alcune felci e si pulì la bocca e il mento, poi si lavò le mani con il terreno umido e si alzò in piedi. Quel trattamento duro aveva ottenuto lo scopo: le sue condizioni erano indubbiamente migliorate.

Girò le spalle al proprio vomito e si incamminò, allontanandosi ulteriormente dalla casa. Sebbene lo strato di foglie e di rami fosse piuttosto spesso sopra la sua testa, alcune stelle riuscivano a far filtrare la loro luce, conferendo un'inconsistente solidità ai tronchi e ai rami. Le, passeggiate nel bosco fatato lo avevano sempre affascinato. Lasciò che il dolce spettacolo della luce e delle ombre tra le foglie sanasse la sua vanità ferita. Vide come tutti i suoi sogni di trovare un posto permanente e sicuro nel mondo di Whitehead non fossero altro che una vana ambizione. Era, e sarebbe sempre rimasto, un uomo marchiato.

Continuò a camminare con calma lì dove gli alberi si facevano più fitti e la vegetazione dei sottobosco, ormai senza più luce, si diradava. Davanti a lui, piccoli animali si davano alla fuga, mentre gli insetti della notte ronzavano nell'erba. Si fermò un attimo, immobile, per meglio ascoltare quel notturno. In quello stesso momento, con la coda dell'occhio vide qualcosa muoversi. Guardò in quella direzione, cercando di focalizzare fra il corridoio di tronchi. Non era stato un abbaglio. C'era davvero qualcuno, grigio come gli alberi, ad una trentina di metri da lui - ora immobile, ora di nuovo in movimento. Si concentrò, e fissò quella figura immersa nelle ombre profonde.

Forse si trattava di un fantasma. Lo guardò come un cervo può guardare un cacciatore, non sicuro di essere stato visto ma senza la benché minima intenzione di uscire allo scoperto. Sentiva la paura attraversargli tutto il corpo. Non era una paura razionale, collegata a qualcosa di concreto, era la paura angosciante -del bambino: la vera paura. E, paradossalmente, si era impadronita di lui completamente. Non importava che avesse quattro anni oppure trentaquattro: nel suo cuore era rimasto lo stesso. Aveva sognato tante volte questi boschi, queste notti da braccati. E ora il suo terrore era quasi tangibile, lo bloccava, agghiacciato in quel punto, mentre la figura grigia - troppo occupata nelle sue faccende per accorgersi di lui - osservava la terra fra gli alberi. Rimasero così, lui e il fantasma, per quelli che sembrarono parecchi minuti. Sicuramente passò un bel po' di tempo prima che udisse un rumore filtrare attraverso gli alberi: e non si trattava di una civetta, né di un roditore. C'era sempre stato, solo non era riuscito a capire di che cosa si trattasse: era il rumore di uno scavo. Piccole pietre che rotolavano, terra che cadeva. Il bambino in lui disse no: lascia stare, lascia stare tutto. Ma era troppo curioso per ignorarlo. Fece due passi di prova in direzione del fantasma. Non sembrò né vederlo né sentirlo. Fattosi coraggio, avanzò ancora di qualche passo, cercando di tenersi il più possibile vicino a un albero, così avrebbe potuto trovare facilmente riparo qualora il fantasma avesse guardato in quella direzione. In questo modo avanzò di circa dieci metri verso la sua preda. Era abbastanza vicino per vederlo e per riconoscerlo.

Era Mamoulian.

L'Europeo stava ancora fissando la terra sotto i suoi piedi. Marty si nascose dietro un tronco e si appiattì quanto più possibile, voltando la schiena alla scena. Ovviamente c'era qualcuno che stava scavando ai piedi di Mamoulian; era probabile anche che avesse altri sudditi nelle vicinanze. L'unica speranza di salvezza stava nel fare il morto, pregando Iddio che nessuno lo spiasse come lui aveva spiato l'Europeo.

Alla fine il rumore di scavo cessò e allo stesso modo, come seguendo un muto segnale, cessarono anche i suoni notturni. Era strano. Sembrava che tutti, insetti e animali, trattenessero il fiato, terrorizzati.

Marty si accovacciò ai piedi dell'albero, con le orecchie pronte a captare il minimo segnale che potesse illuminarlo su quanto stava accadendo. Si arrischiò a dare un'occhiata. Mamoulian si stava muovendo in quella che Marty pensava fosse la direzione di casa. L'erba gli nascondeva in parte la visuale: non riusciva a vedere niente dello scavatore, o degli altri discepoli che accompagnavano l'Europeo. Tuttavia li sentì passare: avvertì il lieve rumore dei loro passi strascicati. Lasciali andare, pensò. Era passato il tempo in cui proteggeva Whitehead. Quell'accordo era ormai terminato.

Si sedette, con le ginocchia raccolte contro il petto, e aspettò che Mamoulian si inoltrasse fra gli alberi e scomparisse. Poi contò fino a venti e si alzò in piedi. Gli formicolava la parte inferiore delle gambe e dovette massaggiarle a lungo per riattivare la circolazione. Solo a quel punto si diresse verso il luogo sopra il quale Mamoulian si era soffermato.

Mentre si avvicinava riconobbe il terreno paludoso sebbene normalmente vi giungesse dalla direzione della casa. Quella passeggiata notturna l'aveva portato a compiere un semicerchio. Si trovava esattamente nel punto dove aveva seppellito i cani. La tomba era aperta e vuota; i sudari di plastica nera erano stati strappati, e il loro contenuto rimosso senza tante cerimonie. Marty guardò fisso dentro quel buco, senza capire esattamente cosa fosse successo. A cosa potevano servire dei cani morti?

Qualcosa si mosse nella tomba; qualcosa si agitava sotto i sacchi di plastica. Fece un passo indietro: lo spettacolo l'avrebbe impressionato troppo. Forse si trattava di un nido di vermi, o forse un solo, gigantesco verme delle dimensioni di un braccio, ingrassato dalla carne di cane: chi poteva dire cosa si nascondesse nella terra?

Voltando le spalle al buco, tornò verso la casa, seguendo la strada che aveva preso Mamoulian, fino a quando gli alberi si fecero più radi e si iniziò a vedere la luce delle stelle. Rimase lì, dove il bosco cedeva il posto al prato, fino a quando i suoni della notte ricominciarono attorno a lui.

 

47

 

Stephanie si scusò e si alzò dal tavolo per andare in bagno, lasciando dietro di sé un clima di isteria. Mentre chiudeva la porta uno degli uomini - Ottaway, pensò lei - le propose di tornare dentro e di pisciare per lui in una bottiglia. Lei non lo degnò nemmeno di una risposta. Per quanto la pagassero bene, non aveva intenzione di farsi immischiare in quel genere di cose: non le andavano.

Il corridoio era avvolto nella semioscurità; lo splendore dei vasi, la ricchezza dei tappeti sui quali stava camminando - tutto indicava una grande opulenza e durante le sue visite precedenti la stravaganza del posto le era piaciuta. Ma quella sera si sentiva a disagio - Ottaway, Dwoskin, anche il vecchio - c'era un'aria di disperazione in quel loro bere e in quelle loro continue allusioni che le toglieva il piacere di essere lì. Durante le altre serate avevano finito tutti per ubriacarsi in modo piacevole, poi si passava ai soliti spettacoli e qualche volta, con uno o due di loro, c'era scappata anche qualcosa di più serio. La maggior parte delle volte si accontentavano di guardare. E alla fine veniva sempre pagata profumatamente. Ma quella sera era diverso. C'era qualcosa di crudele, e questo a lei non piaceva. Soldi o non soldi, non ci avrebbe più messo piede. Era comunque giunta l'ora di ritirarsi: doveva lasciare il posto a ragazze più giovani che avevano bisogno di meno trucco di lei per presentarsi.

Si avvicinò allo specchio del bagno cercando di rimettersi un po' di eye-liner, ma le tremavano le mani per il troppo alcol e la riga le venne storta. Lanciò un'imprecazione, poi cercò un fazzoletto nella borsa per rimediare all'errore. In quel momento udì il rumore di un tafferuglio nel corridoio. Immaginò che si trattasse di Dwoskin. Non voleva che quell'individuo la toccasse di nuovo, almeno in quel momento, visto che si sentiva incapace di reagire a causa del troppo alcol. Andò in punta di piedi fino alla porta e la chiuse a chiave. Fuori i rumori erano cessati. Ritornò al lavandino e aprì il rubinetto: un po' di acqua fredda da spruzzare sul suo viso stanco.

 

Dwoskin era in effetti uscito a cercare Stephanie. Intendeva chiederle di fargli qualcosa di speciale, qualcosa di particolarmente volgare per quella notte che doveva essere memorabile.

« Dove stai andando? » gli chiese qualcuno mentre gironzolava per i corridoi, o forse era soltanto una voce immaginaria? Prima della festa aveva preso qualche pillola - di solito lo aiutavano a lasciarsi andare anche se gli mettevano in testa strane voci, soprattutto la voce di sua madre. Che gli avessero fatto o meno la domanda, decise comunque di non rispondere: continuò a camminare lungo il corridoio, chiamando Stephanie. Quella donna era straordinaria, o almeno così pareva alla sua libido acutizzata dalle anfetamine. Aveva un sedere superbo. Avrebbe voluto soffocare fra quelle chiappe, morire sotto il loro peso.

« Stephanie », chiamò. Lei non riapparve. « Coraggio », cercò di rassicurarla, « sono soltanto io. »

C'era uno strano odore nel corridoio: ricordava vagamente quello di una fogna. Tirò un profondo respiro. « Che puzza », esclamò disgustato. L'odore si stava facendo sempre più forte, come se provenisse da qualcosa lì vicino, e sembrava avvicinarsi.

« Le luci », disse a se stesso, scrutando la parete in cerca dell'interruttore.

Qualche metro più in giù, lungo il corridoio, qualcosa iniziò a muoversi nella sua direzione. La luce era troppo debole per poter distinguere bene le forme, ma si trattava di un uomo, e quell'uomo non era solo. C'erano altre ombre, che gli arrivavano fino al ginocchio, tutte radunate nell'oscurità. L'odore si stava facendo insopportabile. Nella testa di Dwoskin ballavano figure colorate, immagini vergognose volteggiavano nell'aria accompagnando quell'odore. Gli ci volle un momento per rendersi conto che quei segni nell'aria non erano opera sua. Provenivano dall'uomo che stava davanti a lui. Punti e linee si accendevano e volteggiavano nell'aria.

« Chi sei? » domandò Dwoskin. Per tutta risposta, i punti e le linee esplosero, trasformandosi in un discorso completo. Senza capire esattamente se i suoni venivano emessi o meno, Dwoskin iniziò a urlare.

All'udire quell'urlo, Stephanie lasciò cadere l'eye-liner nel lavandino. Non riconobbe la voce. Era abbastanza acuta per essere la voce di una donna, ma non era né quella di Emily, né quella di Oriana.

Brividi intensi la percorsero. Afferrò il bordo del lavandino per reggersi in piedi mentre si moltiplicavano i rumori: prima gli ululati, poi piedi che correvano. Qualcuno stava gridando: nient'altro che ordini incoerenti. Doveva trattarsi di Ottaway, ma non sarebbe certo uscita fuori per accertarsene. Qualunque cosa stesse succedendo lì fuori - inseguimenti, catture, o anche omicidi - non erano certo affari suoi. Spense la luce in bagno, nel timore che potesse filtrare attraverso la porta. Qualcuno passò correndo, invocando Dio: adesso sì che c'era disperazione. Si udì un tonfo lungo le scale: qualcuno era caduto. Le porte sbattevano: le urla crescevano.

Si allontanò dalla porta del bagno e andò a sedersi sul bordo della vasca. Lì, nella completa oscurità, iniziò a canticchiare Abide with me - almeno quel poco che si ricordava - in tono molto sommesso.

Anche Marty, sconvolto, udì quelle grida. Anche a quella distanza, erano talmente cariche di terrore cieco da riempirlo di sudore.

Si inginocchiò per terra, fra gli alberi, e si tappò le orecchie. La terra odorava di maturo sotto di lui e la testa gli ribolliva di strani pensieri: immaginava di essere disteso per terra, con la faccia immersa nel terreno, forse morto, ma in una resurrezione anticipata. Come un addormentato sul punto di svegliarsi, impaurito dal giorno.

Dopo un po' il rumore divenne intermittente. Presto, disse a se stesso, avrebbe dovuto aprire gli occhi, alzarsi in piedi e ritornare alla casa per vedere come e per qual motivo fosse successo tutto quel trambusto. Presto; ma non era ancora giunto il momento.

Il rumore era già cessato da parecchio tempo nel corridoio e lungo le scale, quando Stephanie si avvicinò alla porta del bagno, la aprì e diede un'occhiata fuori. Il corridoio era immerso nel buio più completo. Le lampade erano state spente oppure mandate in frantumi. Ma i suoi occhi, abituati ormai all'oscurità del bagno, riuscivano a scorgere la flebile luce che proveniva dalla tromba delle scale. La galleria era vuota in entrambe le direzioni. Nell'aria c'era soltanto uno strano odore, simile a quello di una macelleria sporca in un giorno d'estate.

Si tolse le scarpe e camminò silenziosamente fino alle scale. Sui gradini era sparso il contenuto di una borsetta, e sotto i piedi avvertiva qualcosa di umido. Abbassò lo sguardo: il tappeto era macchiato: poteva trattarsi di vino oppure di sangue. Scese di corsa sul pianerottolo... Faceva freddo: la porta di ingresso e quella dell'atrio erano completamente spalancate. Anche li non c'era segno di vita. Sul vialetto d'accesso non c'era traccia delle macchine; le stanze del piano terra - la biblioteca, le stanze per i ricevimenti, la cucina - erano state abbandonate. Di corsa ritornò al piano superiore per recuperare le sue cose che ancora si trovavano nella stanza bianca ed andarsene. Mentre ripercorreva lo stesso tragitto attraverso la galleria, udì un rumore soffocato dietro le spalle. Si voltò. In cima alle scale c'era un cane; probabilmente l'aveva seguita fin lì. Riusciva appena a distinguerlo a causa dell'oscurità, ma comunque non aveva paura. « Su, da bravo », disse, contenta di vedere una creatura vivente in quella casa abbandonata.

Il cane non ringhiò, e nemmeno mosse la coda: si limitò ad andare zoppicando verso di lei. Solo in quel momento lei si rese conto dell'errore commesso nel salutarlo così benevolmente. La macelleria era lì, su quattro zampe: fece un passo indietro.

« No... » disse. « lo non... oh Cristo... lasciami in pace. »

L'animale continuava ad avanzare, e ad ogni passo che muoveva verso di lei, la sua condizione appariva più evidente. Le budella che penzolavano dalla pancia. Il muso in putrefazione, con i denti che brillavano tra il marciume. Lei si volse verso la stanza bianca, ma lui coprì la distanza che li separava con tre lunghe falcate. Quando le balzò addosso, lei fece scivolare le mani sul corpo dell'animale: con profondo ribrezzo si rese conto che la carne e il pelo erano staccati, e che stava afferrando i fianchi nudi della bestia. Fece un salto indietro: lui continuò ad avanzare, con la testa che ciondolava dal collo rotto, e strinse le mascelle attorno alla sua gola, cercando di scuoterla. Stephanie non riusciva a gridare - le stava divorando la voce - ma con un braccio riuscì ad afferrare quel corpo gelido e sentì la spina dorsale. Istintivamente afferrò la colonna vertebrale, spaccando il muscolo in sottili filamenti appiccicosi; la bestia la lasciò andare, contorcendosi mentre lei staccava con violenza una vertebra dall'altra. Si lasciò sfuggire un lungo sibilo quando la ragazza tirò via il braccio. Si portò una mano alla gola: il sangue stava gocciolando sul tappeto, facendo un rumore sordo: doveva trovare aiuto al più presto o sarebbe morta dissanguata.

Iniziò a trascinarsi verso le scale. Lontano mille miglia da lei, qualcuno aprì una porta. Fu investita da un fascio di luce. Troppo stordita per avvertire il dolore, si guardò attorno. Si distingueva la sagoma di Whitehead di fronte a una porta lontana. Fra di loro c'era un cane. In qualche modo era riuscito a rialzarsi, o almeno la parte anteriore c'era riuscita, e ora si stava trascinando verso di lei, passando sopra il tappeto lucente; la maggior parte del corpo era ormai fuori uso e la testa riusciva a malapena a sollevarsi dal pavimento. Eppure continuava a muoversi, e avrebbe continuato a farlo fino a quando fosse stato messo a riposo da chi l'aveva fatto risorgere.

Alzò il braccio per segnalare la sua presenza a Whitehead. Nell'oscurità, lui non sembrò averla vista, o per lo meno non ne diede alcun segno.

Aveva raggiunto la cima delle scale. Era allo stremo delle forze. La morte stava sopraggiungendo rapidamente. Basta, disse il suo corpo, basta. La sua anima si arrese, e crollò al suolo; il sangue che fuoriusciva dal collo ferito, si sparse lungo le scale, mentre gli occhi ormai semichiusi stavano a guardare. Un gradino, due gradini.

Era come contare le pecore: una perfetta cura contro l'insonnia. Tre gradini, quattro.

Non riuscì a vedere il quinto gradino, e nemmeno qualcos'altro nella lenta discesa.

 

Marty era restio a tornare nella casa, ma qualunque cosa fosse successo, sicuramente era già terminato; inoltre era completamente intirizzito per essere rimasto a lungo in ginocchio nell'erba. Il suo costoso vestito era irrimediabilmente sporco: la camicia era macchiata e strappata e le scarpe immacolate piene di fango. Sembrava un derelitto. Quell'idea, nella verità che esponeva, lo fece quasi ridere.

Si mise a gironzolare sull'erba, in direzione di casa. Davanti a lui riusciva a scorgere le luci della casa in lontananza. Ebbero il potere di riassicurarlo per un po', anche se sapeva bene che quella tranquillità non sarebbe durata a lungo. Non tutte le case erano un rifugio. A volte era più sicuro rimanere all'aperto, sotto le stelle, dove nessuno poteva venire a bussare e a chiamarti, dove non c'era pericolo che il tetto ti cadesse sulla testa.

A metà strada fra la casa e gli alberi un aereo passò sopra la sua testa, salendo sempre più in alto, con le luci simili a due stelle. Si fermò un attimo a guardarlo mentre raggiungeva il punto più alto. Forse si trattava di uno di quegli aerei di controllo che erano soliti passare continuamente nei cieli europei - aerei americani e russi - esplorando con i loro occhi elettronici le città addormentate: giudici dalla cui benevolenza dipendeva il destino di milioni di individui. Il rumore dell'aereo si fece sempre più debole, un sussurro e poi scomparve. Via, a spiare altre teste. Per quella notte, i peccati degli inglesi non si erano rivelati fatali.

Ricominciò a camminare verso la casa con nuova determinazione, prendendo il sentiero che lo avrebbe portato esattamente davanti alla porta principale, nella falsa luce del giorno prodotta dai fasci di luce. Mentre attraversava l'aiuola che portava all'ingresso, l'Europeo apparve sulla porta.

Era impossibile non farsi vedere. Marty rimase in piedi, immobile dove si trovava, mentre Breer usciva e due esseri indescrivibili si allontanavano dalla casa. Qualunque cosa fossero venuti a fare, certamente l'avevano portato a termine.

A qualche metro dal vialetto di ghiaia, Mamoulian diede un'occhiata in giro. Immediatamente i suoi occhi videro Marty. Per un lungo momento l'Europeo si limitò a fissare la distesa di erba luccicante. Poi annuì con il capo, un breve, secco gesto che indicava semplicemente il riconoscimento. Sembrava dirgli: vedi, ti ho visto, ma non ti ho fatto del male. Poi si girò e se ne andò, camminando fino a quando lui e il becchino scomparvero nel buio dei cipressi che fiancheggiavano il viale.

 

PARTE QUARTA

 

LA STORIA DEL LADRO

 

XXXX

« Le civiltà non degenerano per paura, ma perché dimenticano che la paura esiste. »

 

Freya Stark, Perseo nel vento

 

48

 

Marty rimase sul pianerottolo ad ascoltare eventuali passi o voci. Non udì nulla. Era chiaro che le donne se ne erano andate, e lo stesso avevano fatto Ottaway, Curtsinger e Dwoskin. Forse anche il vecchio.

Nella casa erano accese poche luci che rendevano il luogo quasi bidimensionale. Il potere si era sprigionato proprio lì. Ne restavano alcune tracce scintillanti nelle parti metalliche; l'aria aveva un colore azzurrognolo. Salì al piano di sopra. Il secondo piano era immerso nell'oscurità, ma riuscì a trovare la strada grazie all'istinto; i suoi piedi urtarono i cocci di porcellana - qualche tesoro rotto o forse altro mentre avanzava. Ma non c'erano solo cocci di porcellana. Qualcosa di umido, qualcosa di strappato. Non chinò lo sguardo ma continuò diritto per la sua strada, verso la stanza bianca, mentre l'attesa cresceva ad ogni passo.

La porta era spalancata e si vedeva una luce all'interno: non era una luce elettrica, era una candela. Varcò la soglia. La debole fiamma illuminava con luce tremolante - era bastata la sua presenza a farla vacillare - ma fu sufficiente per vedere che nella stanza tutte le bottiglie erano state rotte. Fece un passo su un tappeto di cocci di bottiglia e di vino rovesciato: la stanza era cosparsa di rifiuti. Il tavolo era stato rovesciato e parecchie delle sedie ridotte a brandelli. Il vecchio Whitehead se ne stava in un angolo della stanza. Aveva il viso sporco di sangue, ma era difficile dire se si trattasse del suo stesso sangue. Sembrava l'immagine di un uomo sopravvissuto ad un terremoto: lo spavento lo aveva reso completamente bianco.

« È venuto presto », disse, con molta incredulità in poche sillabe.

« Lo immaginavo. Pensavo che fosse fedele ai patti. Ma è venuto presto per cogliermi in fallo. »

« Chi è? »

Il vecchio si asciugò le lacrime sulle guance con il dorso della mano sporca di sangue. « Quel bastardo mi ha mentito », disse.

« È ferito? »

« No », affermò Whitehead, come se la domanda fosse assolutamente ridicola. « Non alzerebbe un dito su di me. Sa bene come fare. Vuole che vada di mia volontà, capisci? »

Marty non capiva.

« C'è un corpo sul pianerottolo », osservò Whitehead con noncuranza.

« L'ho spostata io dalle scale. »

« Chi è? »

« Stephanie. »

« L'ha uccisa lui? »

« Lui? No. Ha le mani pulite, lui. Potresti berci del latte. »

« Vado a chiamare la polizia. »

« No! »

Whitehead fece qualche passo incerto attraverso i cocci di vetro per afferrare il braccio di Marty.

« No. Niente polizia. »

« Ma c'è un morto. »

« Dimenticatela. Più tardi puoi farla sparire, no? » Stava usando un tono gentile; il suo respiro, ora che era vicino, era insopportabile: « Lo farai, non è vero? »

« Dopo tutto quello che mi avete fatto? »

« Era solo uno scherzo », disse Whitehead. Cercò di sorridere, stringendo il braccio di Marty fino a bloccargli la circolazione. « Dai! Era uno scherzo, nulla di più. » Era come essere bloccati da un ubriaco all'angolo di una strada.

Marty si liberò dalla stretta. « Ho già fatto per lei tutto quello che dovevo », dichiarò.

« Vuoi tornare a casa, non è così? » Il tono di Whitehead si era fatto improvvisamente acido. « Vuoi tornare dietro le sbarre dove puoi nascondere la testa? »

« Ha già provato ad usare questo trucco. »

« Sto diventando ripetitivo? Oh, Gesù, oh Cristo in Cielo! » Fece un gesto come per scacciare Marty. « Vattene allora. Fuori dai piedi: non sei della mia classe. » Barcollò indietro, fino all'angolo e si appoggiò al muro. « Che cazzo sto facendo, forse mi aspetto che tu prenda una decisione? »

« Si è preso gioco di me », urlò Marty in risposta, « per tutto il tempo. »

« Te l'ho detto... era solo uno scherzo. »

« Non mi riferisco solo a stasera. Per tutto il tempo. Ha continuato a mentirmi... a corrompermi. Diceva che aveva bisogno di qualcuno di cui potersi fidare e poi mi ha trattato come fossi un pezzo di merda. Non mi meraviglio che alla fine tutti le girino al largo. »

Whitehead lo aggredì. « D'accordo », gli urlò, « che cosa vuoi? »

« La verità. »

« Ne sei sicuro? »

« Sì, dannazione, sì! »

Il vecchio si inumidì le labbra, incerto sul da farsi. Quando parlò di nuovo, la voce si era fatta più calma. « D'accordo, ragazzo. D'accordo. »

Nei suoi occhi si accese la fiamma antica e, almeno momentaneamente, la sconfitta sembrava essere cancellata da nuovo entusiasmo. « Se sei così ansioso di sapere, ti dirò tutto. » Puntò un dito tremolante verso Marty. « Chiudi la porta. »

Marty diede un calcio a una delle bottiglie rotte e chiuse la porta. Sembrava assurdo chiudere gli occhi su di un omicidio solo per ascoltare una storia. Ma era tanto tempo che voleva ascoltarla: non era possibile rimandare.

« Quando sei nato Marty? »

« Millenovecentoquarantotto. Dicembre. »

« La guerra era già finita. »

« Sì. »

« Non sai cosa ti sei perso. »

Per essere una confessione, aveva uno strano inizio.

« Bei tempi. »

« A stata una bella guerra per lei? »

Whitehead raggiunse una delle sedie meno rovinate e la raddrizzò per sedercisi sopra. Per parecchi secondi tacque. « Ero un ladro, Marty », disse alla fine. « Beh... forse sarebbe più giusto dire che lavoravo nel mercato nero, ma in pratica è la stessa cosa. Parlavo bene tre o quattro lingue ed ero molto sveglio. Riuscivo facilmente a far girare le cose a modo mio. »

« Era fortunato. »

« La fortuna non c'entrava niente. La fortuna non aiuta le persone che non la sanno controllare. Io avevo quel controllo, anche se allora non lo sapevo. Ho costruito la mia fortuna, se preferisci. » Fece una pausa. « Devi capire che la guerra non è quella che si vede al cinema, o almeno la mia guerra con era così. L'Europa stava crollando. Ovunque regnava un clima di incertezza. I confini stavano cambiando e la gente era trascinata verso l'oblio: il mondo era diventato solo una preda. » Scosse la testa. « Ma tu non puoi capire. Sei sempre vissuto in un periodo di relativa stabilità. Ma la guerra cambia le leggi della tua vita. Improvvisamente odiare diventa un bene, desiderare la distruzione diventa un bene. La gente può mostrare il suo vero io... »

Marty si stava chiedendo dove li avrebbe portati quell'introduzione, ma Whitehead aveva preso gusto a raccontare. Non era il caso di interromperlo.

« ... e quando si vive in un clima di incertezza, l'uomo che è capace di forgiare il suo destino può diventare il re del mondo. Scusa l'iperbole ma è esattamente come mi sentivo io. Re del mondo. Vedi, ero intelligente. Non istruito, quello è venuto dopo, ma intelligente. L'intelligenza della strada, come si dice oggi. Ed ero deciso a ottenere il massimo da quella meravigliosa guerra alla quale ero stato inviato da Dio. Passai due o tre mesi a Parigi, poco prima dell'occupazione, poi saltai fuori al momento giusto. Più tardi andai a Sud. Mi piaceva l'Italia, il Mediterraneo. Non desideravo niente. Più la guerra diventava terribile, e meglio era per me. La disperazione degli altri aveva fatto di me un uomo ricco.

« Naturalmente ho sperperato tutti i miei soldi. Non ho mai tenuto i soldi per più di qualche mese. Quando penso ai quadri che ho avuto fra le mani, gli objets d'art, veri e propri tesori. Non che sapessi che mentre pisciavo in un secchio, schizzavo un Raffaello. Compravo e vendevo quelle cose senza pensarci troppo.

« Verso la fine della guerra in Europa andai a Nord: in Polonia. I tedeschi erano ridotti male: sapevano che il gioco stava per finire e io pensavo di riuscire a fare qualche buon affare. Alla fine - e questo fu davvero un errore - finii a Varsavia. Quando ci arrivai, non c'era rimasto praticamente niente. Quello che non avevano preso i russi se l'erano portato via i nazisti. Era una terra completamente desolata. » Sospirò e fece una strana smorfia, facendo uno sforzo per cercare le parole giuste. « Non puoi immaginartelo », continuò. « Era stata una grande città. Ma adesso? Come posso farti capire? Devi vedere attraverso i miei occhi, altrimenti niente di tutto questo ha un senso. »

« Ci sto provando », affermò Marty.

« Tu vivi nel tuo io », continuò Whitehead, « così come io vivo nel mio io. Abbiamo un'idea precisa di quello che siamo. È in questo modo che giudichiamo noi stessi: per quello che di unico c'è in noi. Mi stai seguendo? »

Marty era troppo coinvolto per mentire. Scosse la testa.

« Veramente no. »

« Il valore intrinseco delle cose: ecco come la vedo io. Il fatto che qualsiasi cosa che ha un certo valore nel mondo è in modo specifico quella cosa. Noi celebriamo l'individualità dell'apparenza, dell'essere e forse riteniamo che una parte di quella individualità duri per sempre, per lo meno nella memoria delle persone che ne hanno fatto esperienza. Ecco perché per me ha un valore la collezione di Evangeline, perché mi piacciono le cose un po' speciali. Quel particolare vaso che è diverso dagli altri, quel tappeto tessuto con particolare maestria. »

Poi, improvvisamente, rieccoli di nuovo a Varsavia.

« Laggiù c'erano davvero delle cose stupende, sai? Belle case, chiese meravigliose, superbe collezioni di quadri. Tante cose. Ma quando arrivai io era sparito tutto, ridotto in polvere. Ovunque camminassi, lo spettacolo era lo stesso. Sotto i piedi c'era solo fango. Fango grigio. Ti sporcava gli stivali e la polvere rimaneva nell'aria, restandoti attaccata in gola. Quando tossivi, il tuo catarro era grigio, e anche la merda aveva lo stesso colore. E se osservavi attentamente quella sporcizia, vedevi che non era semplice polvere; era carne, erano detriti, frammenti di porcellana, giornali. Tutta la città di Varsavia era immersa in quel fango. Le sue case, i suoi abitanti, la sua arte, la sua storia: tutto ridotto a qualcosa che ti toglievi dagli stivali. »

Whitehead era curvo in avanti. Dimostrava tutti i suoi settant'anni: un vecchio perso nei ricordi. La faccia era spigolosa, le mani strette a pugno. Era più vecchio di quanto sarebbe stato suo padre se fosse sopravvissuto al suo cuore malandato: ma suo padre non sarebbe mai stato capace di parlare in quel modo. Gli mancava la capacità di articolare e, pensò Marty, la profondità della sofferenza. Whitehead era in agonia. Il ricordo del fango. E qualcosa di più: l'attesa del fango.

Il pensiero del padre e del tempo passato risvegliarono in Marty ricordi che davano un senso alle reminiscenze di Whitehead.

Era un bambino di cinque o sei anni quando morì una donna che viveva vicino a loro. Apparentemente non aveva parenti, o almeno nessuno al quale importasse abbastanza di lei per andare a prendere le poche cose che conservava in casa. Il comune aveva sequestrato la casa e l'aveva parzialmente svuotata, portando via i mobili per venderli all'asta. Il giorno seguente Marty e i suoi amici avevano trovato in fondo al vialetto alcuni degli oggetti appartenuti alla donna morta. Gli uomini del comune avevano fretta e si erano limitati a svuotare i cassetti pieni dì effetti personali senza valore, ammucchiandoli fuori della casa e lasciandoli lì. Mucchi di vecchie lettere legate con nastri sbiaditi; un album di fotografie (c'era sempre lei: da ragazza, vestita da sposa, truccata da strega di mezza età, sempre più minuta con l'andare degli anni); molte cianfrusaglie prive di valore; ceralacca; penne senza inchiostro, un tagliacarte. I ragazzi si erano gettati su quegli oggetti come iene in cerca di qualcosa da mangiare. Non trovando nulla, strapparono le lettere e le gettarono lungo il vialetto; distrussero anche l'album ridendo stupidamente alla vista delle fotografie, anche se una specie di superstizione impedì loro di strappare anche quelle. Non ce n'era bisogno. Ben presto gli elementi della natura avrebbero rovinato quegli oggetti meglio di quanto avrebbero potuto fare, loro. Una settimana di pioggia e di brina avrebbero rovinato, sporcato e alla fine cancellato completamente i visi su quelle fotografie. Forse gli ultimi ritratti esistenti di persone ormai morte se ne erano andati in briciole lungo quel vialetto e Marty, passando di lì ogni giorno, li aveva visti decomporsi gradualmente; aveva visto l'inchiostro delle lettere sbiadire lentamente fino alla completa distruzione del memoriale della vecchia, scomparso come il suo corpo. Se qualcuno avesse portato il vassoio contenente le sue ceneri sui resti ormai distrutti delle sue cose non sarebbe stato possibile distinguerli: non erano altro che polvere grigia, il cui significato era andato irrimediabilmente perduto. Il fango aveva avuto il sopravvento.

Marty ricordava tutto questo in modo confuso. Non vedeva chiaramente le lettere, la pioggia, i ragazzi - ciò che ricordava erano le sensazioni provate in seguito a quegli avvenimenti: il senso oscuro che ciò che era successo in quel vialetto era insopportabilmente profondo. Ora i suoi ricordi erano simili a quelli di Whitehead. Tutto quello che il vecchio aveva detto a proposito del fango e del valore intrinseco delle cose, acquistava ora un senso.

« Capisco », mormorò.

Whitehead guardò Marty.

« Forse », ammise e proseguì: « A quei tempi ero un giocatore d'azzardo, molto più di quanto non lo sia ora. È la guerra che ti fa diventare così, credo. Continui a sentire storie di uomini fortunati che sono sfuggiti alla morte grazie a uno starnuto, oppure di altri che sono morti per lo stesso motivo. Racconti di provvidenza benigna o di sfortuna fatale. E dopo un po' ti ritrovi a guardare il mondo in modo un po' diverso: inizi a vedere il fato all'opera in tutte le cose. Diventi consapevole dei suoi misteri. E, naturalmente, anche dell'altra faccia della medaglia: la determinatezza. Perché devi credermi: ci sono uomini artefici della propria fortuna. Uomini che riescono a forgiare il caso come fosse creta. Senti come un formicolio nelle mani. Come se in quel particolare giorno ti sia impossibile perdere, qualsiasi cosa tu faccia ».

« Sì... » Quella conversazione sembrava vecchia di mille anni, sembrava far parte della storia antica.

« Beh, mentre ero a Varsavia, sentii parlare di un tizio che non aveva mai perso una volta. Un giocatore di carte. »

« Mai perso? » Marty era incredulo.

« Sì, anch'io ero incredulo come te. Consideravo le storie che sentivo come fossero favole, almeno per un po'. Ma ovunque andassi, la gente mi parlava di lui. Iniziai a essere curioso e decisi di rimanere in città - Dio solo sa che c'erano ben pochi motivi per restare lì - per scovare da solo questo uomo dei miracoli. »

« Con chi giocava? »

« Con tutti, apparentemente. Si diceva che era rimasto lì i giorni immediatamente precedenti all'avanzata russa, a giocare con i nazisti, e che poi era restato lì quando l'Armata Rossa era entrata in città. »

« Che senso aveva giocare in mezzo alla distruzione? Non ci dovevano essere molti soldi in giro. »

« Praticamente neanche un soldo. I russi scommettevano le loro razioni, i loro stivali. »

« E allora perché? »

« Era quello che mi aveva colpito. Neanche io riuscivo a capire. E nemmeno credevo che vincesse davvero ogni partita, per quanto potesse essere un buon giocatore. »

« Non riesco a capire come continuasse a trovare gente che giocasse con lui. »

« C'è sempre qualcuno convinto di riuscire ad abbattere il campione. Io ero uno di quelli. Andai a cercarlo per dimostrare che quelle storie erano false. Andavano contro il mio senso della realtà, se preferisci metterla in questo modo. Passai ogni singola ora di ogni singolo giorno cercandolo in giro per la città. Alla fine trovai un soldato che aveva giocato contro di lui e che naturalmente aveva perso. Tenente Konstantin Vasiliev. »

« E il giocatore... come si chiamava? »

« Credo che tu lo conosca... » disse Whitehead.

« Sì », rispose Marty dopo un attimo. « Sì, sa che l'ho visto al club di Bill? »

« Quando è successo? »

« Quando sono andato a comperarmi quel vestito. Mi aveva detto di giocare i soldi che mi avanzavano. »

« Mamoulian era all'Accademia? E ha giocato? »

« No. Apparentemente non l'ha mai fatto. »

« Ho cercato di farlo giocare l'ultima volta che è venuto qui, ma lui non ha voluto. »

« Ma a Varsavia? Ha giocato con lui laggiù? »

« Oh sì. Era esattamente quello che stava aspettando. L'ho capito adesso. Per tutti questi anni mi sono illuso di essere io ad avere il gioco in mano, capisci? Credevo di essere stato io ad andare da lui, credevo di averlo battuto con le mie forze. »

« Lei è riuscito a vincere! » esclamò Marty.

« Certo che ho vinto. Ma mi ha lasciato vincere. E stato il suo modo di sedurmi e ha funzionato. Ha fatto in modo che sembrasse una vittoria sofferta, giusto per illudermi, ma ero così pieno di me stesso che non ho mai dubitato per un attimo che avesse perso la partita deliberatamente. Voglio dire, che motivo poteva avere per fare una cosa simile? Secondo me nessuno. Non a quei tempi. »

« Perché l'ha lasciata vincere? »

« Te l'ho detto: per sedurmi. »

« Intende dire che la voleva nel suo letto? »

Whitehead si strinse appena nelle spalle. « È possibile, sì. » Quel pensiero sembrava divertirlo: la vanità gli arrossò il viso. « Sì, credo probabilmente di essere stato una tentazione. » Poi il sorriso scomparve. « Ma il sesso non è nulla, non è vero? Intendo dire: parlando di possesso, inculare qualcuno non è poi una grande cosa. Il motivo per il quale mi voleva era molto più profondo e molto più penetrante di qualsiasi atto fisico. »

« Ha sempre vinto giocando con lui? »

« Non ho mai più giocato con lui. Quella è stata la prima e ultima volta. So che può sembrare strano. Lui era un giocatore, e anch'io lo ero. Ma come ti ho già detto, a lui non interessavano le carte per la scommessa. »

« Era per metterla alla prova. »

« Sì. Per vedere se ero degno di lui. Se ero adatto a costruire un Impero. Dopo la guerra, quando iniziò la ricostruzione dell'Europa, diceva sempre che non c'erano rimasti Europei veri - erano stati tutti spazzati via da un olocausto o dall'altro - e che lui era l'ultimo della stirpe. lo gli credevo e credevo a tutti i discorsi di Imperi e di tradizioni. Ero lusingato di essere trattato in quel modo da lui. Era più istruito, più convincente, più profondo di qualsiasi altro uomo che avessi mai incontrato fino ad allora e anche fino ad oggi. » Whitehead era perso nei suoi sogni, ipnotizzato dai ricordi. « Ora non sono rimaste che le briciole. Non puoi capire appieno l'impressione che mi fece allora. Non c'era niente che non avrebbe potuto fare o avere se soltanto ci avesse provato. Ma quando gli chiesi: 'Perché si disturba tanto con me, perché non si mette in politica, in un campo dove possa esercitare direttamente il potere?', mi guardò in uno strano modo e rispose: 't già tutto fatto'. All'inizio pensai che volesse dire che quelle vite erano prevedibili. Ma ora credo che volesse dire qualcos'altro. Penso mi volesse dire che lui era stato quelle persone, aveva fatto quelle cose. »

« Ma come è possibile? Un uomo. »

« Non lo so. Sono solo congetture. Lo sono state fin dall'inizio. Ed eccomi qui, quarant'anni dopo, a rivangare le vecchie dicerie. »

Si alzò in piedi. Dall'espressione del viso era chiaro che la posizione seduta gli aveva causato qualche problema alle articolazioni. Una volta in piedi, si appoggiò al muro e reclinò la testa indietro, fissando il soffitto vuoto.

« Aveva un grande amore, una passione divorante: il caso. Lo ossessionava. Diceva sempre: 'Tutta la vita è un caso, il trucco sta nell'imparare ad usarlo'. »

« E questo aveva un senso per lei? »

« Mi ci volle un po' di tempo, ma dopo qualche anno iniziai a condividere con lui quel fascino, sì. Non per un interesse intellettuale, non ne ho mai avuti molti. Ma perché sapevo che avrebbe potuto darmi il potere. Se riesci a fare in modo che la Provvidenza lavori per te », lanciò un'occhiata a Marty, « se riesci a trovare il meccanismo, il mondo è ai tuoi piedi. » La voce si fece più aspra. « Voglio dire, prendi me. Guarda il bene che sono riuscito a fare a me stesso... », fece una risatina corta e amara, « ... lui ha barato », disse, ritornando all'inizio della conversazione, « non ha rispettato le regole. »

« Questa doveva essere l'Ultima Cena », commentò Marty. « Ho ragione? Aveva intenzione di scappare prima che lui venisse qui a prenderla. »

« In un certo senso. »

« Cioè? »

Whitehead non rispose. Riprese la storia esattamente dal punto in cui l'aveva interrotta.

« Mi ha insegnato tante cose. Dopo la guerra abbiamo viaggiato un po' insieme, racimolando una piccola fortuna. Io con le mie capacità e lui con le sue. Poi siamo venuti in Inghilterra e ho iniziato a lavorare nel campo chimico. »

« Ed è diventato ricco. »

« Più ricco di Creso. Mi ci vollero un po' di anni, ma poi arrivò il denaro e anche il potere. »

« Con il suo aiuto. »

Whitehead aggrottò le sopracciglia a quell'osservazione poco gradìta. « Sì, ho

applicato le sue teorie », rispose. « Ma lui ha raggiunto l'agiatezza esattamente

come me. Ha condiviso con me le mie case, i miei amici. Persino mia moglie. »

Marty fece per parlare, ma Whitehead lo zittì.

« Ti ho mai raccontato del Tenente? » chiese.

« L'ha menzionato. Vasiliev. »

« È morto, te l'avevo già detto? »

« No. »

« Non ha pagato i debiti. Hanno trovato il suo corpo nelle fogne di Varsavia. »

« L'ha ucciso Mamoulian? »

« Non lui personalmente. Ma sì, credo... » Whitehead si fermò a metà frase, alzò la testa e rimase in ascolto. « Non hai sentito niente? »

« Che cosa? »

« No. È tutto a posto. La mia testa. Che cosa stavo dicendo? »

« Il Tenente. »

« Oh già. Quel pezzo della storia... Non so se avrà significato per te... ma devo spiegarti tutto, perché senza questo il resto della storia non ha senso. Vedi, la notte in cui trovai Mamoulian era una notte incredibile. IL inutile cercare di descrivertela esattamente: hai presente quando il sole si nasconde fra le nubi? Beh, erano colorate leggermente, del colore dell'amore. Ed ero così sicuro di me stesso, così assolutamente sicuro che niente potesse farmi del male. » Si fermò leccandosi le labbra prima di proseguire. « Ero un imbecille », era l'autodisprezzo a tirargli fuori quelle parole, « camminavo fra le rovine; odore di putrefazione ovunque, fango sotto i piedi, ma non mi importava perché non era la mia putrefazione, la mia rovina. Pensavo di essere al di sopra di tutto quello: soprattutto quella notte. Mi sentivo vincitore perché io ero vivo e i morti erano morti. » Le parole cessarono per un attimo. Quando riprese a parlare, il tono era così basso che si faceva fatica a distinguere le parole. « Che cosa sapevo? Niente di niente. » Si coprì la faccia con le mani tremolanti ed esclamò: « Oh, Gesù! » con voce sommessa.

Nel silenzio che segui, a Marty parve di udire un rumore provenire da fuori: qualcosa che si muoveva nel corridoio. Ma era stato talmente impercettibile che non ne era neanche sicuro; inoltre l'atmosfera nella stanza richiedeva la sua assoluta concentrazione. Muoversi o parlare ora avrebbe rovinato la confessione e Marty, come un bambino stregato da un cantastorie, voleva sapere come terminava la storia. In quel momento gli sembrava la cosa più importante.

La faccia di Whitehead era nascosta dietro le mani che cercavano di asciugare le lacrime. Dopo un attimo, riprese di nuovo a raccontare, con meticolosità, come se fosse questione di vita o di morte.

« Non l'ho mai raccontato a nessuno. Pensavo che se avessi mantenuto il segreto, se avessi lasciato che diventasse solo un'altra diceria, presto o tardi sarebbe scomparso. »

Si udì un altro rumore dall'ingresso, un gemito simile ad un soffio di vento attraverso una stretta apertura. E poi, uno scricchiolio alla porta. Whitehead non lo udì. Era di nuovo a Varsavia in una casa con il falò e una rampa di scale e una stanza con un tavolo e una fiamma che si stava spegnendo. Più o meno come la stanza nella quale si trovavano adesso, in effetti, ma con l'odore del fuoco al posto di quello di vino inacidito.

« Mi ricordo », disse, « che quando terminò la partita, Mamoulian si alzò in piedi e mi strinse la mano. Mani fredde. Mani gelate. Poi la porta dietro di me si aprì. Mi voltai a metà per vedere. Era Vasiliev. »

« Il Tenente? »

« Orribilmente ustionato. »

« Era sopravvissuto, allora », disse Marty in un soffio.

« No », giunse la risposta. « Era quasi morto. »

Marty pensò che forse si era perso qualcosa della storia che avrebbe potuto giustificare un'affermazione tanto assurda. Eppure no: la pazzia veniva presentata come verità pura e semplice. « Era stato Mamoulian », continuò Whitehead. Stava tremando, ma le lacrime erano cessate, scacciate dai ricordi. « Aveva fatto alzare il Tenente dal mondo dei morti, come Lazzaro. Credo che avesse bisogno di aiutanti. »

Mentre balbettava queste parole, si udì di nuovo lo scricchiolio alla porta, una richiesta inequivocabile di poter entrare. Questa volta Whitehead lo udì. Il momento di debolezza sembrava ormai terminato. Alzò la testa. « Non aprire », gli ordinò.

« Perché no? »

« È lui », sussurrò con gli occhi spalancati.

« No. L'Europeo se n'è andato. L'ho visto io. »

« Non l'Europeo », rispose Whitehead. « È il Tenente. Vasiliev. »

Marty era incredulo. « No », disse.

« Non sai che cosa può fare Mamoulian. »

« Mi sembra una cosa ridicola! »

Marty si alzò in piedi e si incamminò attraverso i vetri. Dietro di lui, sentì la voce di Whitehead che diceva: « No, per l'amor del cielo, no », ma andò avanti, abbassò la maniglia e aprì la porta. La luce fioca delle candele rivelò chi voleva entrare.

Era Bella, la Madonna del canile. Se ne stava malferma sulla soglia, gli occhi, quello che rimaneva, rivolti minacciosamente verso Marty; la lingua non era che un muscolo pieno di vermi che penzolava dalla bocca, come se le mancasse la forza di ritirarla. Da qualche parte di quel corpo cavo, esalava un sibilo, il gemito di un cane alla ricerca di conforto umano.

Marty indietreggiò inciampando di due o tre passi dalla porta.

« Non è lui », disse Whitehead con un sorriso.

« Cristo! »

« Va tutto bene, Marty. Non è lui. »

« Chiuda la porta! » pregò Marty, incapace di muoversi e di chiuderla lui stesso. Gli occhi della bestia, la sua puzza lo avevano bloccato.

« Non vuole fare del male. Spesso le capitava di venire qui a mangiare qualche leccornia. Era l'unica della quale mi fidassi di quella razza spregevole.»

Whitehead si allontanò dal muro, calpestando cocci di bottiglia mentre camminava verso la porta. Bella alzò la testa verso di lui e iniziò ad agitare la coda. Marty si girò, disgustato, mentre con la testa cercava una spiegazione logica e plausibile, ma non ne trovò nessuna. Il cane era morto: l'aveva impacchettato lui stesso. Non si trattava certo di una sepoltura prematura.

Whitehead stava fissando Bella attraverso la soglia.

« No, non puoi entrare », le disse, come se parlasse ad un essere vivente.

« La mandi via », gemette Marty.

« È sola », rispose il vecchio, rimproverandolo per la sua mancanza di comprensione. A Marty balenò l'idea che Whitehead avesse perso il lume della ragione. « Non credo a quello che sta succedendo », articolò stentatamente.

« I cani non sono niente per lui, credimi. »

Marty si ricordò di quando aveva visto Mamoulian in piedi nel bosco, con lo sguardo fisso a terra. Non aveva visto nessuno scavatore perché non ce n'erano. Si esumavano da solil lacerando i loro sudari di plastica e ritornando alla luce.

« È facile con i cani », spiegò Whitehead. « Non è vero Bella? Tu sei addestrata ad obbedire. »

Il cane si stava annusando, felice ora che aveva visto Whitehead. Il suo Dio era ancora quell'uomo e tutto era a posto con il mondo. Il vecchio lasciò la porta spalancata e ritornò da Marty.

« Non c'è niente da temere », assicurò. « Non ci farà alcun male. »

« Li ha portati lui in casa? »

« Sì, per interrompere la mia festa. Solo per dispetto. Era il suo modo di ricordarmi di che cosa è capace. »

Marty si abbassò e raddrizzò un'altra sedia. Tremava così tanto che temeva di cadere se non si fosse seduto al più presto.

« Il Tenente era peggio », continuò il vecchio, « perché non obbediva come fa Bella. Sapeva bene che gli era stata fatta una cosa orribile e questo lo aveva fatto arrabbiare parecchio. »

Bella si era svegliata con una certa fame. Era per quello che si era diretta verso la stanza che ricordava con più piacere: il posto dove l'uomo che sapeva esattamente dove grattarle dietro l'orecchio le avrebbe mormorato paroline tenere offrendole bocconcini prelibati direttamente dal suo piatto. Ma quella sera c'era qualcosa di diverso. L'uomo era strano con lei, aveva una voce stridula, e poi c'era qualcun altro nella stanza, qualcuno di cui riconosceva vagamente l'odore, ma che non riusciva a collocare al suo posto. Aveva ancora fame, molta fame e vicino a lei c'era un odorino appetitoso. Odore di carne lasciata nella terra, proprio quella che piaceva a lei, con ancora l'osso attaccato e mezza in putrefazione, Annusò, quasi cieca, cercando la fonte di quell'odore poi, una volta trovatala, iniziò a mangiare.

« Non è una bella vista. »

Stava divorando il suo stesso corpo, strappando grossi pezzi grigi ed untuosi dal muscolo della coscia. Whitehead rimase a guardarla mentre addentava se stessa. La sua aria indifferente di fronte a quel nuovo orrore lasciò Marty esterrefatto.

« Faccia qualcosa! » urlò spingendo il vecchio.

« Ma ha fame », rispose, come se quell'orrore fosse la cosa più naturale del mondo.

Marty raccolse la sedia sulla quale era seduto e la scagliò contro il muro. Era pesante, ma aveva i muscoli gonfi e lo scatto di violenza fu accolto con sollievo. La sedia si ruppe.

Il cane alzò la testa dal suo pasto; la carne che stava mangiando cadeva dalla gola squarciata.

« È troppo », disse Marty, raccogliendo la gamba della sedia e attraversando la stanza fino alla porta prima che Bella si rendesse conto delle sue intenzioni. All'ultimo momento sembrò capire che le voleva fare del male, e cercò di alzarsi sulle zampe. Una delle zampe posteriori, la coscia ridotta quasi all'osso, non la reggeva più e avanzò zoppicando, con i denti scoperti mentre Marty assestava un colpo su di lei con quell'arma improvvisata. La forza del colpo le mandò in pezzi il cranio. Smise di ringhiare. Il corpo cadde indietro con la testa a penzoloni dal collo e la coda fra le gambe in segno di paura. Due o tre passi timorosi di ritirata e poi non riuscì più a muoversi.

Marty aspettò, pregando Dio di non dover colpire la bestia una seconda volta. Sembrava che il corpo si stesse sgonfiando. L'ingrossamento dello stomaco, i resti della testa, gli organi che pendevano dal suo ventre si erano trasformati in qualcosa di astratto, ogni parte indistinguibile dalle altre. Chiuse la porta su quella vista, e lasciò cadere l'arma insanguinata.

Whitehead si era rifugiato dall'altra parte della stanza. La sua faccia era grigia come il corpo di Bella.

« Come ha potuto farlo? » urlò Marty. « Come è possibile? »

« Ha il potere », affermò Whitehead. Apparentemente era così semplice. « Può rubare la vita e può darla. »

Marty frugò in tasca, cercando il fazzoletto di lino che aveva comperato appositamente per quella serata di buon cibo e di chiacchiere. Lo aprì e si asciugò il viso. Il fazzoletto rimase impregnato di sporche particelle putride. Si sentiva vuoto come il sacco nel corridoio.

« Una volta mi ha chiesto se credevo nell'Inferno », disse. « Si ricorda? »

« Sì. »

« Crede che Mamoulian sia qualcosa del genere? Qualcosa... », gli veniva da ridere, « qualcosa venuta dall'Inferno? »

« Ho considerato questa possibilità. Ma per natura non credo al soprannaturale. Paradiso e Inferno. Tutte quelle cose extrasensoriali. Il mio sistema è contrario. »

« Se non sono diavoli, che cosa sono? »

« È così importante? »

Marty si asciugò le mani sudate nei pantaloni. Si sentiva contaminato da quelle oscenità. Ci sarebbe voluto parecchio tempo per lavare via quell'orrore, ammesso che ci riuscisse. Aveva commesso Ferrore di scavare troppo a fondo e la storia che aveva sentito - quella e il cane alla porta - ne erano la conseguenza.

« Sembra che tu non stia bene », commentò Whitehead.

« Non avrei mai pensato... »

« Cosa? Che i morti possono alzarsi in piedi e camminare? Oh, Marty, pensavo fossi cristiano, nonostante tutto. »

« Voglio uscirne », disse Marty. « Entrambi ne usciremo. »

« Entrambi? »

« Io e Carys. Andremo via. Da lui. Da lei. »

« Povero Marty. Sei più stupido di quanto pensassi. Non la rivedrai mai più. »

« Perché no? »

« È con lui, dannazione! Non te ne sei accorto? È andata via con lui! » Così, era questa la spiegazione alla sua improvvisa scomparsa. « Di sua volontà, naturalmente. »

« No. »

« Oh, sì. Marty. Fin dall'inizio lui ha avuto certi diritti su di lei. La cullava nelle sue braccia quando era appena nata. Chi può sapere che tipo di influenza ha avuto. Sono riuscito a vincerla per un po'. » Sospirò. « Ho fatto in modo che mi volesse bene. »

« Lei voleva andarsene. »

« Mai. È mia figlia, Strauss. È capace di abbindolare la gente quanto me. Tutto quello che c'è stato fra voi l'ha voluto per sua convenienza. »

« Lei è un bastardo fottuto! »

« Questo è risaputo, Marty. Sono un mostro, te lo concedo. » Alzò le mani con i palmi all'infuori, in una fatalistica rassegnazione al rendiconto dei suoi misfatti.

« Mi pareva che lei avesse detto che Carys l'amava. Eppure se n'è andata. »

« Te l'ho detto: è mia figlia. Pensa nel mio stesso modo. È andata con lui per imparare a usare i suoi poteri. Io ho fatto lo stesso, ricordi? »

Questa spiegazione, anche se veniva da un delinquente come Whitehead, aveva una certa logica. Negli strani discorsi di Carys non c’era sempre celato un certo disprezzo nei confronti di Marty e del vecchio, disprezzo dovuto alla loro incapacità di comprenderla? Se le fosse stata offerta la possibilità, forse Carys non sarebbe andata a ballare con il Diavolo, se questo le avesse permesso di comprendere meglio se stessa?

« Non preoccuparti di lei », disse Whitehead. « Dimenticala: se n è andata. »

Marty cercò di ricordarsi il viso della ragazza, ma l'immagine era confusa. Improvvisamente si sentì molto stanco, con le ossa a pezzi.

« Riposati un po', Marty. Domani andremo insieme a seppellire la puttana. »

« Non voglio essere immischiato in questa storia. »

« Mi pareva di averti detto una volta che se stavi con me non c'era luogo in cui non avrei potuto portarti. Adesso è più vero che mai. Sai che Toy è morto. »

« Quando? Come? »

« Non ho chiesto i particolari. Il fatto è che non c'è più. Ora siamo rimasti solo io e te. »

« Si è preso gioco di me! »

La faccia di Whitehead era il ritratto della persuasione. « Un semplice errore », disse. « Perdonami. »

« Troppo tardi. »

« Non voglio che tu te ne vada, Marty. Non lascerò che tu te ne vada! Mi hai sentito? » urlò il vecchio gesticolando con le dita nell'aria. « Sei venuto qui per aiutarmi! E che cosa hai fatto? Niente! Niente! »

Nel giro di pochi secondi era passato dalle lusinghe alle accuse di tradimento. Prima le lacrime, poi le imprecazioni, ma dietro a tutto lo stesso terrore di essere lasciato solo. Marty continuò a guardare le mani tremolanti strette a pugno.

« Ti prego... » lo supplicò ancora il vecchio. « ... non lasciarmi solo. »

« Voglio che finisca la storia. »

« Bravo ragazzo. »

« Tutto, mi sono spiegato? Tutto. »

« Cos'altro c'è da dire? » riprese Whitehead. « Diventai ricco. Ero entrato in uno dei mercati con maggiore sviluppo del dopoguerra: l'industria farmaceutica. Nel giro di pochi anni mi ritrovai ai vertici mondiali. » Sorrise fra sé. « Inoltre, c'era ben poco di illegale nel modo in cui avevo fatto fortuna. A differenza di molti altri, io giocavo secondo le regole. »

« E Mamoulian? L'ha aiutata? »

« Mi ha insegnato a non tormentarmi troppo per le questioni morali. »

« E che cosa ha voluto in cambio? »

Whitehead socchiuse gli occhi. « Non sei tanto stupido, vero? » disse con tono di approvazione. « Quando ti fa comodo sai come arrivare al dunque. »

« È una domanda ovvia. Aveva fatto un accordo con lui. »

« No! » lo interruppe Whitehead con lo sguardo fisso. « Non ho fatto nessun accordo, almeno non nel modo che pensi tu. Forse c'era una specie di patto fra gentiluomini, ma ormai fa parte del passato. Ha avuto tutto quello che poteva sperare da me. »

« E cioè? »

« Vivere attraverso me », rispose Whitehead.

« Mi spieghi meglio », lo interruppe Marty, « non capisco. »

« Lui voleva vivere, come qualsiasi altro uomo. Aveva certi desideri e li soddisfaceva attraverso me. Non chiedermi come. Non capisco neppure io. Eppure a volte lo sentivo dietro i miei stessi occhi... »

« E lei lo ha lasciato fare? »

« All'inizio non sapevo neppure cosa stesse facendo: avevo ben altre cose per la testa. Sembrava che diventassi sempre più ricco, ora dopo ora. Avevo molte case, terra, tesori d'arte, donne. Era facile dimenticarsi che lui era sempre lì, e che viveva per procura.

« Poi nel millenovecentocinquantanove sposai Evangeline. Il nostro matrimonio avrebbe fatto impallidire due sovrani: lo riportarono persino i giornali da qui a Hong Kong. La Ricchezza e l'Influenza sposavano l'Intelligenza e la Bellezza: era il connubio ideale. Coronò la mia felicità, davvero. »

« Era innamorato? »

« Era impossibile non amare Evangeline. Credo... », sembrava sorpreso mentre parlava, « ... credo che anche lei mi amasse. »

« Che cosa ne pensava di Mamoulian? »

« Ah, questo era il problema », ammise. « Lo detestò fin dal primo momento. Diceva che era troppo puritano e che la sua presenza aveva il potere di farla sentire perennemente in colpa. E aveva ragione. Lui disprezzava il corpo; le sue funzioni lo disgustavano. Ma non poteva farne a meno, come non poteva annullare i suoi desideri. E questo lo tormentava. Con il passare del tempo quel sentimento di odio verso se stesso aumentò. »

« A causa di lei? »

« Non lo so. Forse. Ora che ci penso, probabilmente la voleva, come voleva le bellezze del passato. E naturalmente lei lo disprezzava, a partire dal primo momento. Quando diventò la padrona di casa, quella guerra di nervi si fece ancora più intensa. Alla fine lei mi disse di sbarazzarmi di lui. Questo accadde subito dopo la nascita di Carys. Lei mi disse che non le piaceva il fatto che lui prendesse in braccio la bambina - cosa che a lui sembrava piacere molto. Semplicemente non lo voleva in casa. Ormai lo conoscevo da vent'anni - era vissuto nella mia casa, aveva condiviso la mia vita - ma mi resi conto che non sapevo nulla di lui. Era ancora il mitico giocatore di carte che avevo incontrato a Varsavia. »

« Gliel'ha mai chiesto? »

« Chiesto cosa? »

« Chi era, da dove veniva, come aveva ottenuto quelle capacità. »

« Oh certo, glielo chiesi. E ogni volta la risposta era leggermente diversa dalla volta precedente. »

« Quindi le stava mentendo? »

« In modo abbastanza evidente. Credo che fosse una specie di scherzo: non voleva mai essere due volte la stessa persona. Quasi come se non esistesse. Come se quell'uomo chiamato Mamoulian fosse qualcosa di costruito, una copertura per qualcos'altro. »

« Che cosa? »

Whitehead si strinse nelle spalle. « Non lo so. Evangeline diceva sempre: è vuoto. Era questo che trovava ripugnante di lui. Non era la sua presenza nella casa che le dava fastidio, era la sua assenza, la sua nullità. E io iniziai a pensare che forse avrei fatto meglio a liberarmi di lui, per il bene di Evangeline. Avevo imparato tutto quello che aveva da insegnarmi. Non avevo più bisogno di lui.

« Oltre tutto, era diventato fonte di imbarazzo nelle riunioni sociali. Mio Dio, quando ci ripenso mi chiedo - davvero mi chiedo - come abbiamo potuto lasciarlo manovrarci così a lungo. Quando si sedeva a tavola avresti dovuto vedere il clima di depressione che creava negli ospiti. E più diventava vecchio, più i suoi discorsi si facevano futili.

« Non che invecchiasse in modo visibile: non lo si notava. Oggi non dimostra un anno in più di quando lo incontrai per la prima volta. »

« Nessun cambiamento? »

« Nessuno a livello fisico. Forse qualche piccola alterazione: ora attorno a lui aleggiava un'aria di sconfitta. »

« A me non sembra uno sconfitto. »

« Avresti dovuto vederlo quando era all'apice. Era terrificante, credimi. La gente smetteva di parlare quando appariva lui sulla porta: sembrava assorbire la gioia di ogni essere, uccidendola all'istante. Le cose arrivarono a un punto tale che Evangeline non sopportava di essere nella stessa stanza con lui. Diventò paranoica: era convinta che lui stesse complottando di uccidere lei e la bambina. Metteva sempre qualcuno vicino a Carys di notte, per essere sicura che lui non la toccasse. Ora che ci penso, fu Evangeline che mi convinse a comperare i cani. Sapeva che aveva una particolare avversione per i cani. »

« Ma non ha fatto come le aveva chiesto sua moglie? Voglio dire: non l'ha allontanato? »

« Oh, sapevo bene che mi sarei dovuto decidere prima o poi; solo mi mancava il fegato per farlo. Poi iniziò con giochi di potere alquanto meschini, solo per dimostrare che avevo ancora bisogno di lui. Fu un errore tattico. Per me la sua importanza si era ridotta di molto. Glielo dissi. Gli dissi che doveva cambiare la sua condotta, oppure andarsene. Lui rifiutò, naturalmente. E io sapevo bene che l'avrebbe fatto, ma volevo solo un pretesto per poter rompere la nostra associazione, e lui me l'offrì su un piatto d'argento. Ora, naturalmente, mi rendo conto che lui aveva capito benissimo il mio gioco. Comunque, il risultato fu che lo cacciai via. Beh, non io personalmente. Fu Toy che lo fece. »

« Toy lavorava per lei personalmente? »

« Oh sì. Anche questa era stata un'idea di Evangeline: era così protettiva nei miei confronti. Mi consigliò di assumere una guardia del corpo ed io scelsi Toy. Era un ex pugile e assolutamente onesto. Non si fece mai impressionare da Mamoulian. Non si fece mai nessuno scrupolo a dire quello che pensava. Così quando gli disse di liberarsi di quell'uomo, lui obbedì. Ritornai a casa un giorno e il giocatore di carte se n'era andato.

« Quel giorno respirai meglio. Era come se avessi avuto una pietra al collo senza saperlo. Improvvisamente la pietra non c'era più e io mi sentivo più leggero.

« Tutte le paure legate alle conseguenze di quel gesto si rivelarono prive di fondamento. La mia fortuna non scomparve. Anche senza di lui, avevo conservato il successo di sempre. Forse anche di più. Avevo più fiducia. »

« E non l'ha più visto? »

« Oh no, lo rividi. Ritornò nella casa un paio di volte, sempre senza avvertire. Sembrava che le cose non andassero troppo bene per lui. Non so esattamente come, ma aveva perso in qualche modo il suo tocco magico. La prima volta che ritornò era così decrepito che feci fatica a riconoscerlo. Aveva un'aria malandata e un pessimo odore. Se tu l'avessi incontrato per strada, saresti andato sull'altro marciapiede per evitarlo. Facevo fatica a credere a quella trasformazione. Non volle nemmeno mettere piede in casa - non che l'avrei lasciato entrare - voleva solo denaro; glielo diedi e se ne andò. »

« Ed era autentica? »

« Che cosa intendi dire con autentica? »

« La scena del mendicante: era vera, giusto? Cioè, non era un'altra storia?... »

Whitehead alzò le sopracciglia. « Per tutti questi anni... Non ci ho mai pensato. Ho sempre supposto... », si interruppe e riprese di nuovo cambiando discorso. « Sai bene che non sono un uomo sofisticato, nonostante le apparenze indichino il contrario. Sono un ladro. Mio padre era un ladro e probabilmente anche mio nonno. La cultura che mi circonda non è che una facciata. Cose che ho preso dagli altri: ho ricevuto del buon gusto, per così dire.

« Ma dopo qualche anno inizi a credere a ciò che dicono di te; inizi a pensare di essere davvero un uomo sofisticato, un uomo di mondo. Inizi a vergognarti degli istinti che ti legano a quello che sei realmente, perché appartengono a un passato imbarazzante. A quello che accadde a me. Persi il senso di quello che ero.

« Bene, decisi che era venuto il momento che il ladro tornasse a essere quello che era: tempo di iniziare ad usare i suoi occhi, il suo istinto. Me l'hai insegnato tu anche se Dio solo sa se ne eri consapevole. »

« Io? »

« Siamo uguali. Non lo vedi? Entrambi ladri. Entrambi vittime. »

La commiserazione presente nell'affermazione di Whitehead era davvero troppo. « Non può dirmi che lei è una vittima », controbatté Marty, « dopo il modo in cui è vissuto. »

« Che cosa ne sai tu di quello che sento? » scattò Whitehead. « Non fare il presuntuoso, chiaro? Non pensare di poter capire perché non ci puoi riuscire! Mi ha strappato tutto, tutto! Prima Evangeline, poi Toy, adesso Carys. Non venirmi a dire tu se ho sofferto o meno! »